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I giovani stanno rivoluzionando il mercato del lavoro

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Il fenomeno statunitense della Great Resignation ha messo in discussione il lavoro come fine ultimo dell’esistenza, privilegiando i tempi di vita alle schede di performatività e rendimento in ufficio. Ma, anche se in Italia, rispetto al 2019, sono 40mila in più le cessazioni volontarie di contratti a tempo indeterminato, è ancora presto per parlare del Big Quit come di una tendenza consolidata. Come spiega a VD Simone Fana, autore di “Basta salari da fame!, «le grandi dimissioni interessano solo una fetta dei lavoratori italiani». E la possibilità migliorare la propria condizione «è circoscritta solo ad alcuni». Ma le nuove generazioni hanno tutto l’interesse a rivoluzionare il mercato del lavoro.

Le dimissioni dal lavoro in Italia

L’insoddisfazione verso il proprio lavoro non è un tema emerso con la pandemia. Secondo Fana, infatti, dietro il fenomeno delle dimissioni c’è una lunga storia di disagio sociale. «Negli Stati Uniti le persone hanno richiesto una maggiore serenità nella vita, una serenità che il lavoro non consentiva più di avere». Ma se guardiamo all’Italia «forse il fenomeno delle dimissioni va meno enfatizzato: in effetti, le dimissioni volontarie nel secondo trimestre del 2021 sono aumentate rispetto al 2019. Ma non possiamo ancora dire che sia una tendenza consolidata del mercato del lavoro italiano». È importante infatti considerare anche i flussi di attivazione e di cessazione dei rapporti di lavoro nel 2021. «Il nostro mercato del lavoro non è così mobile da permettere a chi si dimette di confrontarsi con una domanda di lavoro ampia. Se guardiamo i dati, le cessazioni nel 2021 sono superiori alle attivazioni: il mercato del lavoro non è per niente in buona salute, anzi, è un mercato segnato dalla crescita dei rapporti di lavoro in somministrazione, del part-time involontario e del lavoro intermittente».

Le grandi dimissioni stanno poi interessando solo una fetta dei lavoratori, dislocati in una precisa area geografica. «Se guardiamo i dati, le dimissioni sono concentrate in alcuni settori, come la sanità, l’informatica o le telecomunicazioni, che hanno registrato un incremento dei tempi di lavoro», spiega Fana. «Soprattutto gli infermieri si sono trovati a gestire la pandemia con scarse risorse umane, con un'intensificazione dei turni e dei ritmi di lavoro. Resta, poi, un fenomeno circoscritto al Centro Nord, e che quindi non possiamo dire nazionale». Ci sono anche altri fattori legati al sistema delle imprese e del lavoro che non permettono di paragonare il fenomeno statunitense del Big Quit alla situazione italiana. «Al momento siamo in una fase di scongelamento del mercato del lavoro. È una fase di assestamento e transizione», dice. «Negli Stati Uniti c’è un mercato del lavoro molto più mobile e un tasso di disoccupazione che è la metà di quello italiano. Nel nostro Paese, la possibilità di cambiare lavoro e migliorare la propria condizione è circoscritta solo ad alcune tipologie di lavoro».

I giovani e il lavorismo

Ma se un cambiamento ci sarà, arriverà di sicuro dai giovani, che hanno incrociato le braccia contro la cultura del lavorismo. «Da parte dei ragazzi e delle ragazze, c’è la consapevolezza, acquisita in questi ultimi anni, che la propria libertà personale viene prima rispetto all’obbligo morale nei confronti della famiglia o della società», sottolinea Fana. «Il lavoro ti deve rendere in qualche modo libero, non ti può rendere schiavo. Ti deve consentire di vivere meglio, di essere più sereno, di costruire un futuro, di avere una prospettiva più lunga e non di accorciarla al presente. Le nuove generazioni sanno che il lavoro nel contesto italiano è fonte di schiavitù». Soprattutto se si guarda ai dati sul lavoro povero in Italia, che riguarda circa 5 milioni di persone. «I giovani sanno che non si deve lavorare a ogni costo. Un grande aiuto in questo senso è venuto dal reddito di cittadinanza che ha permesso di non lavorare a qualsiasi salario o condizione».

Del resto, però, «sulle politiche del lavoro non c’è alcuna volontà di fare un cambio di rotta da parte delle istituzioni». Difficile che qualcuno possa trarre insegnamento dall’esperienza statunitense del Big Quit. «Tra le aziende, invece, chi ha la possibilità di organizzare in modo diverso il lavoro, dando maggiore spazio ai tempi di vita, è comunque una minoranza», continua. Soprattutto in contesto in cui «la maggior parte delle imprese ha meno di 9 dipendenti e lo smart working è una misura che riguarda solo un lavoratore su tre», mentre il concetto di salario minimo sopravvive solo a livello di dibattito. Eppure, secondo Fana, il costo del lavoro in Italia non è più alto rispetto ad altri Paesi europei. «In Francia o in Belgio, ad esempio, il costo del lavoro è più alto che da noi. Il vero problema è che le imprese italiane sono disabituate a investire». Ma in assenza di politiche specifiche che possano indicare alle aziende la strada da seguire, il rischio è che la dimissione volontaria rimanga l’unico strumento in mano al lavoratore per far sentire la propria voce. «Il tessuto produttivo non è in grado al momento di fare un salto in avanti sotto questo punto di vista», dice. «A meno che non sia guidato».

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