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Tra burnout e paghe indegne, l'Italia sta lasciando il lavoro
Se la quarta rivoluzione industriale ha trasformato gli uffici in chiese, la Great Resignation ci ricorda che, in realtà, lavorare non è nient’altro che uno scambio di servizi. Nato nel 2021 negli Stati Uniti, il fenomeno del Big Quit, vale a dire delle dimissioni volontarie dal lavoro anche in assenza di un piano di riserva, ha toccato anche l’Italia. «Avevo un contratto a tempo indeterminato, ma mi stavo rovinando la vita. E così mi sono licenziata», racconta Diletta a VD. «Il tempo libero, stare mezz’ora al sole, all’aria: erano cose che non avevo più». Per alcuni, quindi, sembra esserci vita dopo il lavorismo.
La Great Resignation: dal burnout alle dimissioni
Giorgia lavorava in un’agenzia di comunicazione, un’azienda «fluida, dinamica e flessibile». A ottobre si è licenziata, dopo aver avuto un burnout, che definisce come «un atto di resistenza» a un sistema sempre più performativo e sempre meno umano. «Il mio corpo ha detto basta, non riusciva più a stare dietro a certi ritmi e a certe richieste». Con la pandemia, i turni erano diventati anche di 14 ore al giorno. «Una sera ho sentito uno strappo: ho lanciato una bottiglia di vetro contro il muro e mi sono messa a piangere e a urlare. Mi sono licenziata senza avere un'alternativa», spiega a VD.
Il fenomeno della Great Resignation sembra interessare soprattutto i Millennial e i ragazzi della gen Z, più attenti a tutelare la propria salute mentale e meno inclini a vivere per lavorare. «Firmare un contratto a tempo indeterminato a meno di trent’anni è rarissimo», racconta Lorenza a VD. Ma un ambiente di lavoro «tossico e poco trasparente» l’ha spinta a scrivere la lettera di dimissioni. «È stato un regalo che ho voluto farmi. Anche se lavoravo in un ambito, quello digital, che amavo, posso dire di non essermene pentita. Anzi, avrei dovuto farlo prima». Per Lorenza e molti altri lavoratori italiani e d’oltreoceano dimettersi ha rappresentato un atto di rispetto verso di sé. «Non siamo criceti sulla ruota, non si lavora per lavorare. È una deformazione che abbiamo importato dagli Stati Uniti».
«A causa del lavoro rischiavo di dimenticarmi le cose semplici», dice Diletta a VD, che lavorava come fotografa in uno studio. In un Paese come l’Italia, con un tasso di disoccupazione oltre il 9%, ciò che frena molti lavoratori a unirsi alla Great Resignation è l’idea del lavoro inteso come privilegio o, peggio ancora, come un favore del datore nei confronti del dipendente o del collaboratore. «Sapere, però, che molti dei miei coetanei non lavorano mi faceva credere di essere una privilegiata. Mollare sarebbe stato come sputare nel piatto dove mangiavo. Ecco perché ho tardato a licenziarmi. Ma quando l’ho fatto, ho provato un senso di liberazione».
Per molti, però, la Great Resignation rischia di restare sinonimo di privilegio più che di resistenza e cambiamento. «Non biasimo chi non lo fa perché ha il mutuo e deve mantenere la famiglia», dice Lorenza. Eppure secondo Diletta «licenziarsi non è una questione economica». «Certo, non ho una famiglia da mantenere, a differenza di altri». Insomma, dimettersi non è più soltanto una questione di privilegio.
La Great Resignation in numeri
Cultura della performance, lavorismo e burnout hanno portato 4 milioni di lavoratori statunitensi a licenziarsi in massa a luglio 2021, circa il 3% della forza lavoro del Paese. Da quel momento, il termine Great Resignation, suggerito da Anthony Klotz, professore di Management nel Texas, ha cominciato a interessare giornalisti e analisti. Sanità e aziende tech sono stati i settori più colpiti dall’emorragia di personale, ma ciò non deve stupire: secondo l’Harvard Business Review, i tassi di dimissione più alti si sono registrati in quegli ambiti travolti dalla crescita della domanda durante la pandemia.
In Italia, i dati raccolti dal Ministero del Lavoro rivelano che nel secondo trimestre del 2021 (aprile-giugno), su un totale di 2,5 milioni di contratti cessati, si sono registrate 484 mila dimissioni. Un aumento pari al 85% rispetto allo stesso periodo del 2020. Numeri e percentuali inferiori rispetto ad altri Paesi, ma che raccontano come il posto di lavoro sia sempre più desacralizzato.
Se fino agli anni Settanta lavorare era solo un mezzo per emanciparsi e costruirsi una vita migliore, da qualche anno il lavoro è diventato la vita: la Great Resignation raccoglie, quindi, questo disagio. Se sarà vera rivoluzione ce lo saprà dire il tempo.
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