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In Italia le terapie per curare l'omosessualità sono ancora legali
In Italia, le terapie di conversione, che puntano a “correggere” l’orientamento sessuale, esistono e sono anche diffuse. Partono dalla convinzione che l’omosessualità sia una malattia e coinvolgono il 10% dei ragazzi e delle ragazze della comunità Lgbt. Un giovane su 10. A denunciarlo è la Società Italiana di Andrologia (SIA). Si tratta di pratiche che vanno dalla psicoterapia all’utilizzo di farmaci, passando per riti pseudoreligiosi. Interventi che, secondo la Sia, hanno «basi scientifiche inesistenti, sono contrarie a ogni deontologia e sono pericolose e dannose per chi le subisce, spesso adolescenti o giovanissimi».
«Caro figlio, sei gay? Forse ti serve uno psicologo»
Le realtà che si occupano delle terapie riparative – un altro modo per chiamarle – hanno un alleato naturale: le famiglie. «Queste realtà fanno leva sulla paura e lo spaesamento che possono avere i genitori quando scoprono che i propri figli sono omosessuali», spiega Gabriele Piazzoni, segretario generale di Arcigay. «Si parla soprattutto di ragazzi tra i 13 e i 18 anni, quindi di adolescenti che iniziano a farsi domande e stanno scoprendo la propria sessualità». Non sempre ne parlano con i genitori, che però «spesso se ne accorgono dalla cronologia web del computer, rendendosi conto che i propri figli hanno iniziato a vedere dei porno ma i protagonisti sono diversi da quelli che si sarebbero aspettati».
E, talvolta, colti di sorpresa – oppure convinti della confusione del ragazzo che, secondo loro, non può certo essere gay – decidono di portare i figli da uno psicologo o da altre realtà che possano “aggiustarlo”. La maggior parte degli psicologi, rilevata l’assenza di disturbi nei giovani che si trovano davanti, favoriscono il dialogo all’interno della famiglia, coinvolgendo anche i genitori verso una maggiore conoscenza e accettazione dell’altro.
Ma ne esistono alcuni che – per convinzioni personali, contrariamente alla deontologia e non curandosi della condanna già espressa dal loro ordine professionale verso queste pratiche – cercano, invece, di “guarirli” dall’omosessualità. A volte consigliando anche terapie farmacologiche. E così «i genitori vanno dal medico di base chiedendo che vengano prescritti calmanti, benzodiazepine o altri farmaci perché ritenuti utili dallo psicologo», riferisce Piazzoni. Oppure «si rivolgono direttamente a quei pochi psichiatri che appoggiano questa visione e sono ritenuti come guru per chi vuole “sistemare i propri figli”».
Perché le terapie di riparazione partono dalla tesi che qualunque orientamento sessuale al di fuori di quello etero sia una malattia. Una convinzione che non ha alcun fondamento scientifico. Nel 1974 l’omosessualità è stata eliminata dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (Dsm) pubblicato dall'American Psychiatric Association. Ma la pietra tombale sulla sua patologizzazione è stata messa dall’Organizzazione mondiale della sanità nel 1990, cancellandola dall’elenco delle malattie mentali e definendola «una variante naturale del comportamento umano».
Gli psicologi, gli psicoterapeuti e gli psichiatri che, per convinzioni personali e in contrapposizione alla comunità scientifica, praticano le terapie riparative sono una minoranza. E lo fanno di nascosto. Il rischio per loro è di essere radiati dai loro albi professionali. «Chi ne parla e divulga queste azioni è perché non pratica più la professione, altrimenti svolge questa attività senza sbandierarlo», dice Piazzoni. Ma queste pratiche vengono svolte anche in altri contesti: le comunità. «Gruppi ascrivibili al radicalismo religioso, lontani dalla Chiesa ufficiale», racconta Piazzoni. Anche in questo caso, si tratta di un mondo sommerso. Nessuna di queste realtà sbandiera il suo obiettivo, «vengono mascherate da centri per il benessere personale o per l’equilibrio spirituale, ad esempio».
Traumi legali
Tutte le realtà che utilizzano queste pratiche, secondo Piazzoni, «giocano sull’ignoranza delle famiglie che, in realtà, spesso, in questi casi, sono in buona fede e pensano di aiutare i propri figli». Invece provocano loro dei danni, a volte, irreparabili. Si parla di insicurezze, traumi, depressioni, dipendenze dai farmaci che si trovano ad assumere: «Prescrivono loro medicine per una malattia inesistente e finiscono per creargliela, convincendoli di essere sbagliati». Tra le conseguenze, spiega la psicoanalista e socia di ASA (Associazione Solidarietà Aids), Giorgia Fracca, ci sono anche «il radicalizzarsi di comportamenti sessuali autolesivi, promiscuità di tipo non felice, uso di sostanze stupefacenti per sviluppare una sessualità più sfrenata, con il rischio anche di diffusione di malattie sessualmente trasmissibili, sensi di colpa e non in rari casi il suicidio».
Queste terapie però non sono illegali in Italia. Se nei giorni scorsi la Francia ha approvato una legge che le vieta, punendo le pratiche di 'conversione' con 2 o 3 anni di carcere e da 30mila a 45mila euro di ammenda, in Italia, invece, non esiste una legge che le proibisca. Un tentativo in questo senso è stato fatto nel 2016, dall’allora senatore del Partito democratico Sergio Lo Giudice, che aveva presentato un disegno di legge. La pena proposta per chi pratica queste terapie è la reclusione fino a due anni e una multa da 10mila a 50mila euro. Il documento non è però stato discusso ed è decaduto con la legislatura precedente.
Terapie di conversione estreme
Ci sono pratiche anche più violente, che negli anni sono state perpetrate con l’obiettivo di “guarire dall’omosessualità”. Ci racconta la sua esperienza Paolo Tedaldi, 72 anni. Erano gli anni Ottanta, Tedaldi era sulla trentina e, spinto dalla famiglia, si è lasciato convincere ad andare a un ritiro di cinque giorni sul lago di Garda, organizzato da una setta. L’obiettivo della famiglia era “guarirlo” dall’omosessualità, di cui si era resa conto, ma senza dirglielo esplicitamente. Tedaldi, ignaro di quello a cui stesse andando incontro, si è fidato e per accontentarli decise di acconsentire. Era sereno, non era lì per cambiare orientamento sessuale ma credeva che partecipare a un’esperienza di questo genere potesse essere «in qualche modo positivo per il mio benessere». Invece, «è successo di tutto».
Il ritiro si svolse in un hotel, all’ingresso veniva chiesto loro di firmare un documento «in cui si rinunciava a ogni ribellione o rimostranza e che tutto quello che sarebbe successo lì dentro sarebbe stato sotto la nostra responsabilità». Le terapie di gruppo erano condotte da una signora che, ricorda, «era violenta». Ha fatto solo un accenno all’omosessualità di Tedaldi, qualcosa che l’uomo non si sente di ripetere neanche a distanza di tanti anni. «Attaccandosi a questo, mi disse poi sostanzialmente: “tu pratichi certe cose, ora noi ti facciamo passare la voglia di farle”».
Da lì è iniziato l’incubo. «Le terapie di gruppo in realtà erano torture fisiche», racconta. «C’era il divieto di parlare, si dormiva un’ora per notte, si consumava solo un pasto frugale verso mezzogiorno e poi c’era questo sistema di provocazione perché qualcuno esplodesse, scoppiando a piangere o iniziando a urlare». In che modo? «Si passava da una tortura a un’altra. Con me, hanno iniziato tirandomi degli elastici sul collo per ore», racconta. Poi sono passati alle percosse. «Mi hanno accusato di aver parlato e mi hanno riempito di sberle». Le violenze sono aumentate giorno per giorno. «Mi hanno fatto correre mentre circa venti persone mi inseguivano tirandomi calci».
Ma nonostante questo non era possibile andarsene. «Non potevamo uscire dall’hotel, eravamo chiusi dentro. A un certo punto pensai di fuggire dalla finestra, ma mi resi conto che eravamo troppo in alto». Così ha dovuto resistere fino alla fine. «Queste cose poi si chiudono con la riconciliazione, la musichetta giusta. E si rimane come storditi, plagiati, sotto shock». Tornando a casa si spogliò e si guardò allo specchio e vide che aveva il sedere «viola per i lividi ed ero sanguinante», ricorda. «Per una settimana non riuscii neanche a uscire di casa né a fare altro». All’epoca non pensò a denunciarli: era in stato di shock e non sapeva bene come muoversi. Ma questa esperienza segnò il suo distacco dalla famiglia e il suo modo di vivere la sessualità in modo sereno.
Terapie antietiche
L’esperienza di Tedaldi è estrema. In Italia, non è comune imbattersi in persone che abbiano subito questo tipo di violenze in questi anni. Ma non è sempre stato così. E, non va dimenticato, che fino agli anni Settanta, in Italia, quando ancora gli omosessuali venivano internati nei manicomi, era praticato l’elettroshock, direttamente dai medici. In altri Paesi, tuttora, vengono praticati “stupri correttivi”. «Non ho notizia diretta del fatto che in Italia avvengano», racconta Marco Capece, chirurgo e ricercatore del reparto di Urologia diretto da Vincenzo Mirone al Policlinico Federico II di Napoli. Ma tra i pazienti seguiti da Capece e dai suoi colleghi ce ne sono diversi, invece, che raccontano di aver subito terapie farmacologiche, psicoterapiche o di gruppo. Per questo Capece e i medici della Sia hanno deciso di denunciare queste pratiche che «sono antietiche e con un impatto devastante per chi le subisce».
Terapie ormonali contro l’identità di genere
Il medico racconta anche un altro fenomeno preoccupante di cui è venuto a conoscenza nel suo lavoro, svolto tra l’Italia e, precedentemente, il Regno Unito. Alcuni medici «hanno prescritto terapie ormonali a persone transgender, con l’obiettivo di reprimere l’identità di genere del paziente». Ad esempio, terapie farmacologiche a una persona transgender FtoM (che sta effettuando la transizione da donna a uomo) volte ad abbassare il testosterone con l’obiettivo di diminuirne così la mascolinità. Il contrario di quello che andrebbe fatto durante un percorso di transizione, in cui le terapie ormonali sono volte ad aiutare «a superare questa disparità tra quello che una persona si sente di essere e quello che in quel momento è fisicamente».
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