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Essere bisessuali non è 'più facile'. Tra discriminazioni e presunti privilegi

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Andrea, 22 anni, racconta: «Andavamo molto d’accordo, stava nascendo una relazione seria. Ci eravamo già incontrati altre volte ma non era mai capitato di parlare esplicitamente della mia sessualità. Quando gli ho detto che non sono gay ma bisessuale lui ha troncato la relazione. Ha detto che ‘ero solo confuso’. Aveva avuto esperienze negative in passato con dei ragazzi bisex e probabilmente aveva concluso che ‘non ci si può fidare’». È soltanto un esempio delle forme di discriminazione che, per loro stessa struttura, sono riservate esclusivamente alle persone bisessuali, e che riguardano anche il mondo del lavoro.

Secondo una rilevazione Istat-Unar, una persona LGBT+ su cinque, omosessuale o bisessuale, ha faticato a ottenere non solo avanzamenti di carriera, ma anche riconoscimenti e apprezzamenti delle proprie capacità professionali. E se si è bisessuali si fa più fatica a dichiararsi a capi, colleghi e clienti: l’86,2% ha dichiarato che il proprio orientamento sessuale è o era noto almeno a una parte delle persone del proprio ambiente lavorativo, contro il 92,5% delle persone omosessuali.

Che cos’è la bifobia

Per il rapporto, una persona su cinque ha dichiarato di aver vissuto un clima ostile o un'aggressione nel proprio ambiente di lavoro. L’incidenza più elevata si registra tra le donne (21,5% contro 20,4%), sia lesbiche che bisessuali, tra i giovani (26,7%), gli stranieri o apolidi (24,7%) e le persone che vivono al Sud (22,6%). Ma le discriminazioni partono da prima: quasi una persona omosessuale o bisessuale su due (46,9%) ha dichiarato di aver subito almeno un atto di discriminazione a scuola o all’università. E così il 52,7% delle persone non esprime il proprio orientamento sessuale per paura di essere aggredito, minacciato o molestato.

Tanto in Italia quanto all’estero, la parola “bifobia” è pressoché sconosciuta, a differenza delle più note “omofobia” e “transfobia”. D’altronde, sembra quasi strano parlarne. Racconta Claudia, anche lei ventiduenne: «Perché qualcuno dovrebbe discriminare i bisessuali e non gli omosessuali? Come può esistere una discriminazione così settoriale, così arbitraria? Eppure, succede. E a volte non sai nemmeno come chiamarla». Qualcuno ha provato a dare un nome, a chiarire le ragioni per cui parlare di “bifobia” ha senso.

Un’espressione chiave per comprendere il problema è “passing prilivege”. Si tratta del pregiudizio per cui, come spiega la giornalista bisex Anna Broster, «le persone bisessuali possono “passare” come eterosessuali se coinvolte in una relazione romantica con qualcuno del sesso opposto». Conseguenza: le persone bisessuali potrebbero avere accesso allo stesso grado integrazione sociale riservato agli eterosessuali. In breve, essere bisessuali sarebbe “più facile”.

Smontare questo luogo comune significa innanzitutto informare sulle forme specifiche di discriminazioni, microaggressioni e altri comportamenti antisociali perpetrati a danno della comunità bisessuale. Gli esperti tendono a segnalare la specificità dell’esperienza bisessuale concentrando l’attenzione su due temi fondamentali: l’accusa di promiscuità e il negazionismo, o “bisexual erasure”. È importante sottolineare come entrambi questi preconcetti siano diffusi sia all’esterno che all’interno della comunità LGBT. Ciò non significa, ovviamente, accusare la comunità LGBT di essere bifobica, ma semplicemente prendere consapevolezza di un dato di fatto constatato da diversi studi.

Essere bi significa cambiare idea

La cancellazione sistematica dell’identità bisex è un’esperienza comune a molti. «A 16 anni mi sono innamorata per la prima volta di una ragazza», racconta Martina, 23 anni. «Iniziammo una relazione che lei volle mantenere segreta, nonostante io avrei espresso in pubblico fin da subito la mia identità appena scoperta. ‘È meglio se non lo dici in giro, nel caso cambiassi idea’, mi diceva. In seguito, ho capito, scoprendo la comunità LGBT+ che doveva aver pensato che fossi ‘l’ennesima bi curiosa che ci vuole un po’ provare’». Dopo qualche anno, Martina ha intrapreso una relazione con un ragazzo etero. Nel mentre, aveva conosciuto molte ragazze queer, spesso impegnate in relazioni omosessuali. «Ero l’amica che si dice bi ma che sta con un uomo da tre anni, quella che vuole far parte della comunità ma non viene al gay pride, quella che quando parliamo della lotta femminista non è abbastanza radicale».

Insomma, quella che contrabbanda un’identità che non le appartiene: «Sono giunta alla conclusione che per queste persone tutto ciò mi renda una bi mancata» commenta con amarezza. Quando a Martina è capitato, non senza difficoltà, di troncare una storia omosessuale a favore di una relazione etero, è rimasta folgorata dal commento di un’amica lesbica: «eh le bisessuali… non ci si può mai fidare. D’altronde, anche io se fossi bi sceglierei di stare con un uomo. È molto più comodo e facile». Il passing privilege riassunto in poche parole.

Chiunque abbia la volontà e l’occasione di informarsi sul tema, scoprirà che non esiste alcun privilegio bisessuale. I risultati empirici degli studi sulla condizione sociale dei bisessuali parlano chiaro: i pregiudizi e le discriminazioni hanno effetti molto negativi sulla condizione psicologica e sanitaria degli individui. Numerosi studi dimostrano come i bisessuali abbiano maggiori probabilità di avere pensieri suicidari, esperienze negative con il sistema sanitario, difficoltà ad esprimere la propria sessualità anche con i propri famigliari o i propri amici, generale disagio rispetto alla propria identità. Una vera e propria minoranza nella minoranza: questione quantomeno singolare, dato che numerosi studi testimoniano che i bisessuali rappresentano la maggioranza assoluta della comunità LGBT+. Una maggioranza disconosciuta e costretta, al di fuori di qualche statistica ad hoc, ad accorparsi ad altri gruppi, con i quali condivide molto ma nei quali, legittimamente, non si riconosce. Una maggioranza invisibile.

Come nasce l’accusa di promiscuità

L’accusa di promiscuità è di origine antica e sfocia nella patologizzazione dell’identità bisessuale, associata alla ninfomania o alla satiriasi. Varie ricerche, svolte in periodi differenti, hanno trovato prova di questo atteggiamento, che peraltro tende a colpire in misura maggiore le donne. In uno studio condotto nel 2002 dalla University of California, risulta che i bisessuali sono la minoranza rispetto alla quale vi è maggiore diffidenza sociale, secondi soltanto ai tossicodipendenti. Lo studio confermava la natura autonoma della bifobia: gli omosessuali erano più tollerati dei bisessuali. I risultati erano imputati proprio al pregiudizio sulla presunta promiscuità dei bisessuali, al quale si lega la credenza per cui i bisessuali sarebbero i principali vettori di malattie sessualmente trasmissibili.

Un altro studio, pubblicato nel 2018 sul Journal of Sex Research e incentrato sulla percezione della bisessualità femminile, ha rilevato che oltre il 50% di 261 individui intervistati descrivevano le donne bisessuali come promiscue, il 47% come “confuse” e il 30% come “non davvero bisessuali”. Inoltre, venivano più spesso considerate “nevrotiche” rispetto alle donne eterosessuali o omosessuali. Pregiudizi di questo tipo sono in parte appresi e in parte dedotti. Sono appresi perché la rappresentazione mediatica favorisce un’idea degradante della bisessualità.

Il Bisexuality Report del 2012, condotto della Open University, rileva come le donne bisessuali «Sono rappresentate con maggiore probabilità come promiscue» e propense ad assumere comportamenti bisessuali «solo per solleticare uomini eterosessuali», mentre gli uomini bisex «sono considerati come del tutto inesistenti, o vengono rappresentati in qualche maniera come femminili». Allo stesso tempo, i pregiudizi sono dedotti in quanto la condizione bisessuale è in ogni caso fortemente sottorappresentata. Non parlare della bisessualità, o comunque non parlarne come di un orientamento sessuale specifico, significa ricadere in un paradigma binario per cui le uniche identità reali sono quella omosessuale ed eterosessuale. Uno schema per il quale esiste un nome ben specifico: monosessismo. Uno schema che porta a interpretare chiunque si collochi “a metà” fra i due orientamenti “principali” come una persona disturbata o confusa. O, molto banalmente, bugiarda.

Il negazionismo della bisessualità

L’attitudine a spiegare la bisessualità nei termini di promiscuità o perversione è il diretto risultato della tendenza a negare la bisessualità come un’identità a sé stante. Il negazionismo, appunto. Un fenomeno insidioso col quale moltissimi bisessuali hanno avuto a che fare. «Ho avuto una sola relazione con una ragazza», racconta Mirto, 26 anni «e per di più non amo fare commenti sull’aspetto delle ragazze perché non voglio oggettificarle. Il risultato è che non vengo riconosciuta come bisessuale, a volte neppure dai miei amici. Mi sono sentita dire che in realtà mi piacciono di più i ragazzi. È come se gli altri pretendessero di sapere meglio di me cosa mi piace».

Il paradossale risultato è che le persone bisessuali tendono ad assecondare gli atteggiamenti negazionisti, rinunciando a identificarsi pubblicamente come bisessuali tanto con gli omosessuali quanto con gli eterosessuali: «Quando parlo con ragazze lesbiche ho timore di essere identificata come ‘falsa lesbica’» continua Mirto. «Quando parlo con persone eterosessuali ho timore che la mia identità venga associata ad una perversione». Quello del negazionismo è senz’altro il problema più diffuso, che in moltissimi hanno dovuto affrontare. «Hanno provato a spiegare a me la mia stessa sessualità in moltissimi modi diversi» racconta Giovanni, 23 anni «Adesso come incertezza, adesso come egomania. Tra l’altro, erano le persone più vicine a me a causare più problemi.

L’idea era non solo che io dovessi trovare ‘la mia strada’, che in ogni caso non poteva essere la bisessualità, ma che fino a quel momento sarei dovuto restare in silenzio, in questa specie di limbo di sicurezza. Lontano da quell’identità che sentivo mia». Una situazione che diventa particolarmente pericolosa quando si traduce nella refrattarietà a parlare della propria identità sessuale con gli operatori sanitari. La San Francisco Human Rights Commission ha pubblicato un intero report sulla “bisexual invisibility”, un lavoro che rende l’idea della capillarità del fenomeno.

La conclamata bisessualità di personaggi storici, che potrebbero rappresentare icone del mondo bisex, è apertamente cancellata, come nel caso di Walt Whitman, di Freddie Mercury o di Eleanor Roosevelt; Il ruolo della comunità bisex nella lotta per i diritti civili viene spesso completamente ignorato; le istituzioni non dispongono quasi mai di servizi di assistenza o sensibilizzazione dedicati alla bisessualità; la stessa parola “bisessuale” viene sottoutilizzata a favore di termini spesso inventati come “gayish”; talvolta persino nelle ricerche sulla sessualità i bisessuali vengono categorizzati come omosessuali o come eterosessuali. La lista potrebbe andare avanti ancora a lungo.

Non esistono soluzioni dall’alto per un problema come la bifobia. Certo, una certa attenzione politica o una maggiore e migliore rappresentazione della bisessualità aiuterebbero, ma si tratta di rimedi parziali. Tutti gli studi mostrano la natura di questa discriminazione come orizzontale e capillare. Si diffonde nelle interazioni più banali, si potenzia nelle considerazioni più ingenue. Ogni individuo può finire inconsapevolmente per trasformarsi in una sorta di ripetitore, anche perché la reazione più diffusa da parte dei bisessuali è quella di nascondersi, di far finta di non risentirne. Il fatto che tali comportamenti siano riscontrabili anche all’interno della comunità LGBT+ non deve sconfortare, ma sicuramente deve mettere in guardia: nessuno è vaccinato contro la bifobia. E non esiste un ministero che possa provvedere ad aggiustare la situazione a suon di decreti: come sanzionare un commentino, una battuta tra amici o addirittura tra partner? Una società aperta non è un punto di arrivo istituzionale ma un esercizio costante e progressivo di tolleranza e accettazione.

L'inno ai diritti LGBT del Milano Pride

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