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Il tempo libero è un diritto. Anche durante la pandemia

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Solo pochi giorni fa la ministra dei Trasporti Paola De Micheli proponeva, non troppo velatamente, di andare a scuola il sabato e la domenica. «Non ci devono essere tabù pur di garantire la sicurezza dell’organizzazione dell’apertura di tutte le attività. Devono cadere i tabù degli orari e anche dei giorni eventualmente», aveva poi precisato a Radio Capital. Dichiarazioni in linea con la nuova filosofia del lavoro imposta (o auto-imposta) in era covid, che rimanda all’ora et labora di benedettina memoria e che non prevede il tempo libero. Ma secondo l’articolo 24 della Dichiarazione dei diritti umani, «ogni individuo ha diritto al riposo e allo svago, comprendendo in ciò una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite». Un diritto fondamentale dell’uomo e della donna che il covid ci ha fatto riporre da una parte. E non a ragione.

La pandemia e il tempo libero violato

In questa seconda ondata si è parlato tanto di lavoro e scuola e poco di quel diritto fondamentale dell’uomo che è lo svago, il tempo libero. C’è chi addirittura, come il virologo Fabrizio Pregliasco, ha sostenuto a gran voce la necessità di un grande patto sociale, in cui la nostra vita si riduce a scuola e lavoro. «Il resto ora va stornato», ha dichiarato. Lavoro che cade a pezzi per alcuni, e che quindi non può comprendere lo svago per definizione, lavoro che è diventato una catena per altri. Con il coprifuoco imposto alle 22 e i bar e ristoranti chiusi alle 18, almeno in zona gialla, diventa difficile poter coltivare rapporti sociali al di fuori di quelli lavorativi, che per molti si sono ridotti a uno schermo. Il resto “da stornare” diventa, così, lo svago, diritto umano fondamentale, passato sottotraccia, e che in tempi di covid diventa il superfluo. Eppure il 2020, secondo la ricerca condotta da Oracle e Workplace Intelligence riportata da Adnkronos, il 78% degli italiani ha sperimentato problemi di benessere psicofisico e di salute mentale legati al lavoro durante la pandemia, anche a causa dello smart working, il lavoro da casa. In poche parole, in questa nuova normalità da seconda ondata, è socialmente accettato rischiare di ammalarsi di covid (o di burnout) perché si è fatto il proprio dovere, ma non lo è se si contrae il virus nella disperata ricerca di uno svago, ridotto ormai alla corsetta domenicale.

L’etica del lavoro è l’etica degli schiavi

Il covid sembra aver quindi esasperato quelle logiche che sono alla base della società del consumo e del lavoro, inteso non più come diritto fondamentale, ma come obbligo morale ed etico su cui modellare il resto delle nostre esistenze. In sostanza, si lavora per consumare alla bene e meglio quello che si è guadagnato: lo dimostrano le proposte di tenere aperti i negozi anche la sera nel periodo natalizio, per permettere anche a chi non ha tempo, sempre per motivi di lavoro, di partecipare alla grande festa del consumo. Un consumo che, come il lavoro, è privo di quel diritto umano fondamentale che è lo svago. Perdita di tempo in epoche di pandemia. Per alcuni, addirittura un insulto invocarlo di fronte alle migliaia di morti di covid, come per il virologo Crisanti, scandalizzato da chi pensava alle aperture delle piste da sci, che invece, se fatte in sicurezza, avrebbero garantito lavoro e svago. Eppure alcuni Paesi si sono attrezzati per garantire questo diritto fondamentale dell’uomo anche durante il lockdown. Come in Belgio, dove è stato istituito il compagno di coccole, il knuffelcontact. Qualcosa di simile era stato pensato anche in Olanda la scorsa primavera, dove ai single era stato consigliato di trovarsi un “compagno di letto”. Troppo poco? Sicuramente un primo passo verso il rispetto dell’articolo 24 della Dudu, dello svago e del tempo libero. Perché l’etica del lavoro non diventi l’etica degli schiavi. Soprattutto in tempi delicati come il nostro.

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