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Tutti parlano di new normal. Ma non ha nulla di normale

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Secondo Walter Benjamin, dare un nome alle cose rappresenta la possibilità di dare loro un volto e un contenuto; per lo scrittore i fenomeni si sostanziano attraverso il nostro linguaggio, in una vera e propria “metafisica del nome”. L’espressione new normal è un invito a un “resiliente” adattamento a un nuovo stile di vita, accettando la convivenza con un fenomeno straordinario che si fa ordinario.

La nuova normalità

L'espressione new normal, adottata la prima volta in ambito economico e finanziario dopo le grandi crisi dei decenni scorsi, si sta facendo largo nuovamente, in occasione dell’emergenza coronavirus, soprattutto nella comunicazione aziendale e, in particolare, in quella rivolta al personale. Nelle grandi compagnie le caselle di posta dei dipendenti si stanno riempiendo di messaggi a tema: «i mercati EMEA (Europa, Medio Oriente e Africa, ndr) hanno abbracciato nuove opportunità per costruire comunità più forti e nuovi modi di lavorare per sostenere la nuova normalità» scrive l’amministratore delegato di una multinazionale, nella lettera di «buona Pasqua» ai suoi dipendenti. Si tratta di una strategia di marketing finalizzata a rassicurare il personale rispetto ad una “inevitabile” condizione di adattamento. Dietro le parole incoraggianti, talvolta travestite della retorica dell’opportunità, si nascondono numerose insidie. L’espressione, tipica di quel linguaggio aziendalista, semplificatorio e un po’ frettoloso, sta preparando il campo per l’operazione organizzativa. «Ed è proprio al perché, al why, alla Vision aziendale che si deve guardare per costruire i nuovi paradigmi della comunicazione. Questo significa anche una nuova attenzione ai valori dell’azienda, mai come in questo momento vitali per mantenere viva la brand identity e traghettarla in sicurezza verso il new normal». La lezione dell’agenzia Barabino and Partners, leader indiscusso della consulenza e comunicazione di impresa è un riassunto chiaro. Il new normal è entrato a piena legittimità nella narrazione interna e esterna delle imprese. Al suo servizio una lista di inglesismi: User centric designdata driven companiesdigital skill sono posizionati nei vademecum per imprenditori moderni. Parola di Talent Garden.

Smart Working o telelavoro?

Eppure, la nuova normalità non ha portato solo vantaggi al mondo del lavoro. Nonostante l’ostinazione a definirlo smart working quello messo in campo assomiglia molto più a un semplice telelavoro, infiocchettato da una definizione più cool. Il Ministero definisce il lavoro agile (o smart working) come «una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall'assenza di vincoli orari o spaziali e un'organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività». Di fatto una soluzione molto diversa da quella messa in campo durante l’emergenza, che ha finito per legittimare anche le cattive abitudini. Il fatto di essere a casa autorizza psicologicamente i capi a chiamare e fare richieste in tutti gli orari. A questo si aggiunge spesso il mancato riconoscimento degli straordinari. Le aziende stanno capendo che mantenere questa situazione può essere incredibilmente vantaggioso grazie alla riduzione dei costi di utenze, di cancelleria e di viaggio; si sono ridotte le assenze per malattia e l’erogazione dei buoni pasto; i lavoratori sono invitati (o costretti) a consumare le ferie non godute che costituiscono, infatti, uno dei parametri per la valutazione delle performance dei dipendenti. Un’ambiguità che ha danneggiato soprattutto le categorie dove c’è minore sindacalizzazione. New Normal conviene.

Uno spazio definito dal plexiglass

Dove non è arrivata la parola è arrivata l’immagine, in un rocambolesco inseguimento tra designer e architetti che, a pandemia appena iniziata, già disseminavano la rete di progetti in cui riscrivevano la socialità attraverso i paradigmi del distanziamento. Plexiglass, segnaletica e divisori. Tutto a un tratto i rendering si sono impoveriti di persone e affollati di barriere, in una corsa al primato nel ridisegnare spazio, socialità e affetto. La chiamata alle armi arriva direttamente dalle istituzioni. «Mai come ora» dichiara l’assessora alle Politiche del Lavoro, Attività produttive e Commercio del Comune di Milano, Cristina Tajani, «abbiamo bisogno della fantasia e dell’immaginazione di designer, architetti e creativi per individuare soluzioni capaci di conciliare la sicurezza e il distanziamento sociale con i bisogni di socialità e convivialità delle persone e della fruizione di negozi e servizi». Francesca Vittorelli è un giovane architetto di Milano. Ha collaborato con Renzo Piano al progetto G124 sulle periferie italiane e ora lavora in azienda. «Trovo agghiacciante alimentare questa tendenza. Meglio stare chiusi in casa che mettersi a fare progetti per il plexiglass in spiaggia. È lo sfruttamento di una debolezza economica, psicologica e di sfiducia nel prossimo. E l’architettura non dovrebbe veicolare questi sentimenti, è assurdo voler cambiare tutto ciò che avevamo per una cosa che è destinata a finire». E se da un lato alcuni vedono nel new normal l’occasione per architetti, urbanisti e pianificatori di lasciarsi alle spalle un vecchio modello insostenibile, inquinante e dannoso e riempie i progetti di strade pedonali, edifici verdi e viali alberati, dall’altro c’è chi coglie l’occasione per stilare paper scaricabili da internet che guidano istituzioni e dipendenti a tornare in ufficio con soluzioni spaziali pronte all'uso. È il caso di Vitra, colosso del design, che ha prodotto un decalogo illustrato con suggerimenti su “superfici facili da pulire”, “uffici a prova di corona”, “spazi di lavoro sicuri” a suon di paraventi e sedute alternate. Per lavorare, chiaro. Del resto, al netto delle restrizioni e del messaggio sbrigativo delle istituzioni contro «il party e la movida» (Giuseppe Conte), si prospetta un new normal cucito alla perfezione sulla produzione e poco sulla domanda (ragionando in termini economici) o sul benessere psicologico del cittadino (volendo essere un po’ più umani). Come dimostra la narrazione senza giri di parole del Governatore della Regione Campania, Vincenzo De Luca o i video di “sensibilizzazione” della Regione Veneto, dove, gira e rigira, la colpa è del cittadino che esce, che beve, che si distrae. Al quale non resta che restare sulla strada sicura del tragitto impiegatizio casa-lavoro.

Le mascherine alla moda

Poi c’è la moda, che ha prodotto una vera e propria collezione di guanti, visiere e, naturalmente, mascherine. Quella di Fendi era già in vendita prima dell’epidemia, nelle ultime settimane, però, è andata a ruba; 190 euro di pura seta. Con la benedizione della politica. «La mascherina, oltre ad essere una protezione, diventi la moda dell’estate come indossare un foulard, un piercing o una cravatta» ha dichiarato Nicola Zingaretti, leader del Partito Democratico e governatore della Regione Lazio. Ce ne sono per tutti i gusti. A fiori, colorate, di lino, di cotone; sono piene le vetrine dei grandi magazzini e delle boutique di quartiere. Attraverso il messaggio subliminale che “anche la mascherina può essere trendy” di fatto facciamo in modo che essa diventi la nostra nuova pelle. Scrive Susan L. Stewart: «mi ribellerò contro il new normal e la tecnologia che ci tiene isolati, fino al mio ultimo respiro. (...) Che cosa è successo al nostro diritto alla libertà di parola? E il nostro diritto all'assemblea pacifica?». Uno studio del Massachusetts Institute of Technology ha dimostrato che l'isolamento forzato ha gli stessi effetti neurologici della fame. Fame, di normalità, appunto.

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