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riscaldamento globale

Sono le donne a pagare per il riscaldamento globale

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La crisi climatica? Segue il gender gap. Secondo i dati delle Nazioni Unite, il riscaldamento globale colpisce in misura maggiore le donne povere rispetto agli uomini. Tanto che l’80% delle persone sfollate a causa del climate change è di sesso femminile. Un discrimine legato sia al loro ruolo di cura all’interno della famiglia sia al basso potere socio-economico che rende difficile per le donne poter camminare sulle proprie gambe dopo una calamità. Dinamiche che si ripetono nel terzo mondo quanto nel primo.

Povere e fuori dai processi decisionali

Il 70% degli 1.3 miliardi di persone che vivono in povertà sono donne, nonostante siano le occupate in misura maggiore nella produzione di cibo. Uno squilibrio che si traduce nel possesso di solo il 10% della terra e nell’esclusione da ogni processo decisionale sulle questioni ambientali, sebbene siano le maggiormente dipendenti dalle risorse naturali, soprattutto nelle aree rurali. E sono sempre le donne a lavorare di più in caso di siccità o di inondazioni, sottraendo tempo alla propria educazione. Nell’Africa centrale, ad esempio, con la riduzione della superficie del lago Ciad, le donne devono andare molto più lontano per raccogliere l’acqua. «Nella stagione secca, gli uomini vanno nelle città, lasciando le donne a badare alla comunità», ha spiegato alla BBC Hindou Oumarou Ibrahim, coordinatrice dell’Associazione delle donne indigene e delle comunità del Ciad. E con la stagione secca che si fa più lunga, le donne lavorano ancora più duramente per supplire ai bisogni della famiglia. «Questo le rende più vulnerabili, è un lavoro veramente duro». Giochi di forze che si presentano nel terzo mondo come nel primo. Secondo quanto riportato dalla BBC, dopo l’uragano Katrina, che ha colpito gli Stati Uniti nel 2005, le donne afroamericane sono state le più colpite dalle inondazioni in Louisiana. Prima dell’uragano, più della metà delle famiglie povere di New Orleans erano formate da madri single. Con l’uragano, la rete sociale che queste donne erano riuscite a creare per la loro sopravvivenza è stata spazzata via. Lasciandole sole.

Dimenticate nelle emergenze

«Le donne sono le più colpite dalla crisi climatica, perché quando si verificano le catastrofi sono loro a essere escluse dai piani di emergenza». Lo sa bene Marinel Ubaldo, ventitré anni, filippina, sopravvissuta al supertifone Haiyan che si è abbattuto sulla sua nazione e ha ucciso molti dei suoi amici. Per giorni, dopo la catastrofe, si è cibata di radici d’erba prima di riuscire a ristabilire i contatti con il resto del Paese. È stato in quel momento che Marinel ha deciso che sarebbe diventata un’attivista, con Amnesty International, partecipando prima alla COP21 di Parigi e poi alla COP25 di Madrid. «Conosco bene queste dinamiche perché le ho vissute in prima persona. Se si va in un centro di evacuazione, non c’è nessuna attenzione al genere, tutti cercano di sopravvivere, tutti sono nel panico e tutti cercano di salvarsi. Basta pensare alla mancanza di spazi appositi per l’allattamento al seno o ai casi di violenza sessuale. Ed è sempre la donna o la ragazza che dopo la catastrofe non viene mandata a scuola, perché deve aiutare la famiglia e prendersene cura. Spesso, è lei che va nelle grandi città, trasformandosi in migrante. E può accadere che si ritrovi a fare anche la prostituta per mantenere i familiari». L’arma più forte resta l’educazione. «Bisogna dire alle donne e alle ragazze cosa fare durante un disastro naturale. Devono sapere cosa è meglio per loro. Includendo le donne nei processi decisionali delle comunità. Come donne abbiamo bisogni diversi. Ed è giusto che vengano rispettati».

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