pedofilia
E se l'orco fosse lei? Quando la pedofilia è donna
Nel nostro linguaggio la parola pedofilo difficilmente si declina al femminile. L’immaginario comune la riferisce quasi sempre a un uomo, giovane o di mezza età, e una donna pedofila ci appare come un ossimoro. Eppure il fenomeno della pedofilia femminile sembra essere cospicuo. «Il rapporto stimato è uno su tre, su tre pedofili uno è donna» dice a VD la dott. Eliana Lamberti, autrice, con la dott. Loredana Petrone, di uno dei pochissimi studi sull’argomento: Pedofilia rosa. Il crollo dell’ultimo tabù. E sarebbe una stima al ribasso, proprio a causa dei bias sociali sull’argomento: «Molti casi di violenze e abusi compiuti da donne ancora non sono venuti fuori perché le vittime hanno paura di non essere credute e quindi non ne parlano». Ma cosa succede quando l’orco è una lei?
La pedofilia tra le donne
Se, dal punto di vista quantitativo, il fenomeno della pedofilia femminile è ancora poco indagato, lo stesso non si può dire delle sue forme. «L’abuso può essere intrafamiliare ed extrafamiliare» ci spiega la dott. Lamberti. «Nel primo caso si tratta di una donna che vive sotto lo stesso tetto del bambino abusato, spesso la madre». Un caso di questo tipo è stato quello, famoso, di Greg Milligan, abusato dalla madre tra i 4 e i 7 anni e che lo ha spinto, oggi, a diventare portavoce del Network Nazionale contro gli Abusi Sessuali e l’Incesto in Usa. Le vittime delle pedofile intrafamiliari sono, in genere, più giovani sia delle vittime della pedofilia maschile che di quelle delle abusanti extrafamiliari. «Possono essere anche al di sotto dei cinque anni di età» conferma la dott. Lamberti, e approfondisce: «Dobbiamo però fare una distinzione per i bambini molto piccoli, con i quali l’agire sessuale non è realizzabile». In quel caso l’abuso si manifesta in maniera più subdola, ad esempio col «lavare di continuo il bambino, toccarne in continuazione le parti intime, applicando unguenti e creme. Ci sono donne che sviluppano un’ossessione nella pulizia dei genitali e anche quella, estremizzata, diventa una forma di abuso, di ipercura. Un altro modo è esporre il bambino ad atti sessuali o pornografia. Ci sono stati casi di donne che hanno consumato rapporti sessuali di fronte ai bambini, con gravi ripercussioni psicologiche su di loro».
La seconda tipologia di abuso è quella che emerge più facilmente nella cronaca ed è in genere messa in atto da caregivers: «Quando parliamo di pedofile extrafamiliari parliamo di persone che sono a contatto con il bambino: baby sitter, insegnanti e altre figure che stanno insieme al bambino quando i genitori non ci sono e quindi in un certo senso tendono ad avere più possibilità di abusare il bambino o l’adolescente». A giugno scorso il Tribunale di Prato si è trovato davanti a un caso di questo tipo, condannando a 6 anni di reclusione una donna trentenne che aveva intrattenuto una relazione con un suo studente di 13 anni e che da lui aveva avuto anche un figlio. In casi come questi la donna pedofila spesso vive una forma di idealizzazione. «Da parte di alcune donne c’è proprio l’idea di vivere una storia d’amore vera e propria, una sorta di alienazione dalla realtà perché parliamo di donne trenta-quarantenni con adolescenti». La vittima, al contrario, vive un profondo disorientamento, dovuto soprattutto ai bias patriarcali della nostra società con cui entra in contatto. «Se ne parla con gli amici, questi gli dicono che è fortunato» dice a VD la dott. Lamberti. «Però lui sperimenta emozioni disorientanti e questo contrasto è molto dannoso perché è come se non riuscisse a capire quello che sta accadendo».
Infine c’è la pre-pedofilia che è una forma di abuso passivo caratterizzato «dall’assunzione, da parte della donna, di una posizione marginale nell’atto pedofilo, lasciando all’uomo la parte attiva», spiegano i dott. Petrone e Troiano. È il caso di madri che concedono i propri figli ad altri uomini, parte o meno della famiglia. Come nel caso di Fortuna Loffredo, concessa dalla madre Marianna Fabozzi al proprio compagno Raimondo Caputo, che la violentò e poi la uccise quando la piccola tentò di parlare della violenza subita. Caputo, detto Titò, è stato condannato all’ergastolo, la Fabozzi a 10 anni.
Come nasce una donna pedofila
Alle origini della pedofilia femminile c’è sempre un abuso subito nell’infanzia, che viene reiterato da adulta. Quell’abuso passato è stato, nel caso delle donne pedofile, particolarmente cruento: «Queste donne» spiega la dott. Lamberti «sono state violentate dal punto di vista fisico, psicologico, emotivo e i segni di quella violenza hanno poi causato una bassa autostima e una scarsa fiducia nelle relazioni». Un male che le pedofile portano dentro e che infliggono alle proprie vittime. «Quando mettono in atto un abuso fanno quello che in psicologia si chiama “coazione a ripetere”, cioè rimettono in atto un copione che hanno vissuto e subito perché così, in quel momento, hanno l’impressione di avere il controllo su qualcosa che da bambini non hanno potuto controllare». In questo modo, spesso, sono indirettamente responsabili di altri futuri casi di molestie se, come emerge dagli studi di Petrone e Troiano, il 78% dei pedofili è stato a sua volta molestato da bambino, in particolare dalla madre.
Cosa succede alle vittime di abusi
Le ripercussioni degli abusi di una donna su un bambino sono gravissime e vengono vissute dalla vittima come un doppio tradimento: «L’abuso fatto dalle donne genera nel bambino una dissonanza cognitiva forte perché la donna è associata all’idea di mamma ed è di per sé vista come una persona che cura, che protegge. Quindi pensare di essere stati abusati da una donna diventa un pensiero assurdo e la vittima tende a soffrire di una dissonanza cognitiva». Lo stesso Greg Milligan raccontò, in una lunga intervista alla ABC, questo rifiuto inconscio: «Avevo 11 anni (quando gli assistenti sociali lo prelevarono da casa, ndr). Per tutto quel tempo mi ero vergognato di rivelare che il mio aguzzino era la mia mamma». Ancor più difficile quando si parla di bambini con disabilità. I dott. Loredana Petrone e Mario Troiano riportano, in E se l’orco fosse lei: «Su un campione di 445 bambini portatori di handicap, l’incidenza dell’abuso sessuale è del 15% contro il 2% dei bambini senza handicap» e, in questo caso, il 44% degli abusi è intrafamiliare, il resto avviene con persone esterne. Sul lungo periodo le ripercussioni sul bambino «possono essere una difficoltà nello stringere relazioni da adulti, disturbi alimentari, anoressia, bulimia e anche disturbi borderline di personalità che sono comunque collegati in maniera importante agli abusi sessuali».
Pedofilia rosa, perché non se ne parla
Nonostante un quadro così problematico e una serie di casi di cronaca molto noti, è da relativamente poco tempo che la ricerca ha iniziato a occuparsi del tema. «La psicoterapeuta inglese che ha scritto l’introduzione al nostro libro» ci dice la dott. Lamberti « è la famosa Michelle Elliott. Lei aveva già tanti anni di carriera quando si trovò a parlare a una conferenza del fenomeno della pedofilia e disse, allora, che i pedofili erano solo maschi. Alla fine della conferenza si avvicinò un signore che le rispose: “Guardi non è così, io sono stato abusato da mia madre”. La dott. Elliot ne rimase sconvolta e di lì iniziò a indagare il fenomeno diventando una delle poche ad averne scritto».
Ma in Italia, paese dal retaggio cattolico, la ricerca è ancora molto indietro per un pregiudizio legato alla figura materna e alla sua “sacralità. «Nell'idea collettiva la donna è la madre, è la generatrice, è colei che dà la vita, nell'identificarla come abusante c’è una dissonanza cognitiva. Una dissonanza data proprio dal pensiero della donna come elemento positivo, accudente». In Italia, infatti, il lavoro delle dott. Lamberti e Petrone è stato il secondo mai realizzato e il primo, in assoluto, che indagasse tutta la letteratura internazionale sull’argomento. «Questo è un problema perché sentirne parlare dà la forza, a chi lo ha vissuto, di superare l'abuso, di sentire che ci sono altre storie come la sua, trovando a sua volta il coraggio di parlare».
Cosa possiamo fare
Osservare, prima di tutto, perché i bambini spesso non riescono a parlare degli abusi o, addirittura, ad esserne coscienti. Notare «se il minore comincia ad avere atteggiamenti sessualizzati che non rispondono alla sua età o a toccarsi di frequente. Questo è un primo livello. Inoltre, consultarsi con uno psicoterapeuta esperto di questa tematica che può fornire indicazioni». E poi parlarne pubblicamente, sui media e in ambito scientifico. Abbattere quello che sembra essere, appunto, un ultimo tabù. Infine «creare dei gruppi di supporto. Chi è vittima, quando partecipa ai gruppi di auto aiuto, può sentire la forza del collettivo e il fatto che ci siano altre persone che hanno subito la stessa cosa può aiutarlo». La condivisione e la coscienza di non essere soli possono salvare le vittime di abusi non solo dai loro carnefici ma anche da una vita intera di sofferenza e negazione.
Come chiedere aiuto
Se pensi di aver bisogno di aiuto o che qualcuno che conosci abbia bisogno di aiuto, in Italia è attivo il numero 114 per l’Emergenza Infanzia e il sito 114.it gestiti da Telefono Azzurro e dal Dipartimento per le Politiche della Famiglia - Presidenza del Consiglio dei Ministri.
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