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Il Mondo che Cambia
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rivoluzioni

La rivoluzione andrà in TV

Gil-Scott Heron cantava: «La rivoluzione non andrá in TV» nel 1971, sulle note del suo - e in qualche modo universale - attivismo afroamericano. Eppure il mondo sta cambiando anche attraverso i nostri schermi. Gli ultimi cento anni non sono stati solo la prima epoca della storia a essere raccontata attraverso immagini e riprese in tempo reale, è stata anche la prima epoca in cui le persone comuni, collegate tra loro, hanno usato quelle immagini per cambiare il mondo. I cittadini sono passati da essere spettatori della storia ad attori e protagonisti. Questo cambiamento è iniziato con la televisione ed è stato compiuto dallo smartphone.

La risposta che abbattè il Muro di Berlino

Il giornalista italiano Riccardo Ehrman era arrivato in ritardo alla conferenza stampa del 9 novembre 1989 a Berlino Est: «Era una noiosa conferenza stampa, come tutte quelle del regime comunista della Germania orientale. Durò quasi due ore. Il portavoce, Schabowski, aveva parlato di cose fatte e da fare e aveva anche accennato, nello stesso tono monocorde di sempre, al fatto che era possibile che il regime avesse commesso qualche errore». A quella frase, Ehrmann sollevò l’argomento nella sala stampa, davanti alle telecamere e ai giornalisti di tutto il mondo: «La mia domanda, quando finalmente mi fu concessa la parola, fu: 'Non crede che avete commesso degli errori nel promulgare una nuova legge sui viaggi che non è tale, ma solo una conferma di tutto quello che succedeva prima?'» Schabowski, irritato risposte: «Noi non facciamo errori» e tirò fuori un foglietto, con cui annunciava appunto che tutti i cittadini tedeschi orientali potevano varcare tutte le frontiere, senza passaporto. Ehrman racconta: «E fu a questo punto che io aggiunsi altre due domande: 'Vale anche per Berlino ovest'? 'Sì - fu la risposta - per tutte le frontiere'. Quindi l'ultima: 'E da quando?'. Schabowski rimase un momento interdetto: 'Su questo foglio non c'è scritto, però sicuramente da questo momento'. Commise un errore, perché io ho la copia del foglio, che mi regalò lui stesso nel 2002, e lì c'è scritto 'ab sofort', che in italiano significa 'da subito'. Si stava dando notizia della caduta del muro, ma nessuno l'aveva capito». Hans Jager, a capo della milizia a guardia del Muro, stava mangiando con i suoi commilitoni quando sentì, alla televisione, Schabowski balbettare quella risposta confusa e contraddirsi. In un attimo si trovò migliaia di persone che affollavano il checkpoint. Dopo un’ora erano decuplicate. In mancanza di ordini, Jager decise di aprire i varchi e il Muro di Berlino fu travolto. Due milioni di persone si ritrovarono a ballare, abbracciarsi, abbattere le pareti di cemento di quella barriera che per decenni li aveva divisi. Fu la più grande festa della storia, nata da una risposta in TV.

Il discorso storico di Ronald Reagan al Muro di Berlino

La liberazione degli afroamericani

La televisione prima e gli smartphone poi, sono stati i mezzi che hanno aiutato gli afroamericani a liberarsi dalla segregazione in America, un segno dei tempi visto che, al contrario, proprio il cinema aveva, con Birth of a Nation di Griffith, rinsaldato quelle catene negli anni ‘20 e ‘30 e dato grande spinta all’attività del Ku Klux Klan. Furono, soprattutto, gli anni ‘60 a segnare il passo di questa liberazione, prima di tutto con Martin Luther King Jr, una vera e propria star del tubo catodico con il suo volto rassicurante e la sua potente oratoria. Il suo discorso “I have a dream” al Lincoln Memorial durante la Marcia su Washington è considerato il più bello della storia e il filmato trasmesso allora dalle TV di tutto il mondo plasmò una generazione. Ma la TV ha influenzato anche le seguenti rivolte afroamericane, come i famosi Los Angeles Riots. Era il 3 marzo del 1991 quando un gruppo di poliziotti fermò per eccesso di velocità il giovane tassista nero Rodney King e lo pestò violentemente. George Holliday, videoamatore, riprese tutto e consegnò il filmato ai maggiori network del paese che trasmisero le immagini a tutta la nazione. Quando i poliziotti furono assolti il 29 aprile del 1992, Los Angeles si sollevò e per una settimana l’intera città fu teatro di una rivolta ancora oggi nota come Rodney King Uprising. Vent’anni dopo, nel 2016, fu Colin Kaepernick, giocatore della squadra di football dei San Francisco 49ers a dare inizio a un nuovo movimento di protesta afroamericano inginocchiandosi durante l’inno nazionale. Kaepernick divenne così il padre del Black Lives Matter originale, poi tornato a far sentire la sua voce proprio in questi mesi, con la morte di George Floyd e Breonna Taylor.

Il sogno di Martin Luther King

Dalla Battle in Seattle al G8 di Genova

L’Italia ricorda ancora la «Più grave sospensione dei diritti civili in occidente dopo la Seconda Guerra Mondiale» come Amnesty International definì gli scontri di Genova del 2001. Pochi invece rammentano dove tutto era iniziato, da quelle immagini provenienti dall’altra parte del mondo e trasmesse in TV dopo il WTO di Seattle. Da metà anni Novanta molti movimenti di opinione erano preoccupati che l’apertura senza regole del commercio mondiale avrebbe aumentato le disuguaglianze sociali e polarizzato ancora di più la ricchezza. Nel 1999, per la riunione biennale dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) a Seattle, il movimento che poi sarebbe stato conosciuto come no global, protestò per le strade della città dello stato di Washington. L’economista Noah Smith descrisse l’origine variegata di quelle proteste: «Sindacati preoccupati dalla competizione sleale dalla manodopera straniera a basso costo, ambientalisti critici verso la pratica di dare in appalto le lavorazioni inquinanti, gruppi di protezione dei consumatori preoccupati dalle importazioni che violavano gli standard di sicurezza, attivisti per i diritti dei lavoratori turbati dalle cattive condizioni di lavoro negli altri paesi, e attivisti di sinistra di varie sfumature interessati a sfogare la loro rabbia contro il capitalismo». La protesta prese forma già alle 7.30 del mattino e fu straordinariamente efficace. Il sociologo Jamie McCallum raccontò: «gli attivisti avevano occupato l’intero centro della città, riuscendo a impedire ai delegati del WTO di partecipare alle loro riunioni, e in alcuni casi persino di lasciare i propri hotel. Ci incatenammo l’uno all’altro: eravamo un unico muro umano, una manifestazione fisica della solidarietà alla fine del millennio». La polizia, messa in una situazione di impasse, reagì attaccando i manifestanti con lacrimogeni e proiettili di gomma. Così scoppiò la famosa Battle in Seattle e, con essa, nacque uno dei gruppi sociali più noti dell’epoca: i black block. Quelle immagini varcarono l’oceano e trovarono una sponda in Europa dove, due anni dopo, si riproposero a Genova. Se le istanze del movimento per lo sviluppo sostenibile hanno dovuto attendere due decenni per essere, infine, riconosciute come razionali, una grande parte della loro eredità è stata raccolta già dopo la crisi del 2008 dal movimento Occupy Wall Street. Attraverso lo schermo dello smartphone.

Lo smartphone anarchico di Occupy Wall Street

È il 17 settembre 2011. Un gruppo di persone si raduna nelle vicinanze dello Zuccotti Park, un parco privato, a Downtown, Manhattan a due passi dalla Borsa di Wall Street, prima con brande, poi con tende e cucine da campo. È l’inizio delle proteste pacifiche che passeranno alla storia con il nome Occupy Wall Street, caratterizzate dalla critica al capitalismo finanziario e alle sue diseguaglianze. E lo smartphone diventa per i manifestanti non solo il mezzo per comunicare e organizzarsi ma anche per testimoniare le violenze della polizia. Lo schermo scuro del cellulare si mette così al servizio del movimento del 99%. Perché, come scriverà Reuters, «per occupare Wall Street, bisogna prima occupare Internet». Occupy Wall Street diventa un hashtag su Twitter ancora prima di una manifestazione, perché, come dirà Jeff Jervis, professore di giornalismo alla City University di New York, «un hashtag non ha padrone, non rispetta una gerarchia, né ha un canone». È l’anarchia digitale, baby. E si gioca tutta attraverso lo schermo di uno smartphone.

Il destino della Tunisia da dietro lo schermo

Solo pochi mesi prima del movimento Occupy Wall Street, in Tunisia Mohamed Bouazizi si dà fuoco in segno di protesta per il sequestro del suo carico di frutta da parte della polizia, diventando il primo martire di quella che passerà alla storia come la Rivolta dei Gelsomini. Pochi giorni dopo, infatti, un centinaio di persone si riunirà davanti al municipio di Sidi Bouzid per protestare contro il trattamento che le autorità avevano riservato a Bouazizi. Armato di smartphone, il cugino di Bouazizi riprenderà le manifestazioni. È l’inizio della rivoluzione: alla velocità dei bit, il video finisce sulle bacheche Facebook dei tunisini. Al-Jazeera darà la notizia solo dodici giorni dopo la morte di Bouazizi. Gli smartphone, con la possibilità di accedere ai social network, diventano il motore delle proteste, che si ingrosseranno naturalmente, sfondando gli argini del regime di Ben Ali, come un fiume in piena. Facebook su smartphone diventa così una rivoluzione nel modo di fare la rivoluzione. Inaugurando una nuova epoca per l’attivismo che abbiamo visto trionfare anche nel lontano Sudan.

Protestare a Hong Kong con le app

Dopo l’approvazione della legge sulla sicurezza nazionale, Hong Kong si è sollevata ed è iniziata una lunga serie di proteste che hanno preso il nome dagli ombrelli portati dai manifestanti. Resteranno nella storia le foto, diffuse sui social, delle folle oceaniche lungo le strade della città tornata cinese a fine anni Novanta, le interviste a Joshua Wong divenute virali, le app usate dai manifestanti per comunicare, organizzarsi e addirittura boicottare le attività economiche troppo vicine al governo di Pechino. Una rivoluzione, almeno per il momento, mancata perché l’arrivo del coronavirus e la pressione della Cina hanno avuto la meglio sui filodemocratici di Hong Kong, in gran parte costretti a fuggire a Taiwan o in Occidente, oppure finiti in prigione avvolti da un inquietante silenzio sui social.

La filosofia di Joshua Wong

Le rivoluzioni attraverso uno schermo

Un mondo che cambia, attraverso lo schermo, della televisione prima, dello smartphone poi. Il potere che aveva, a metà Novecento, usato quello stesso schermo, spesso per assoggettare i cittadini con la propaganda, è stato travolto dalla rivoluzione tecnologica e comunicativa e oggi un adolescente a Hong Kong con un telefono può influenzare tante persone quante un capo di stato in Europa. Una rivoluzione madre di altre, nuove, rivoluzioni che ci ha trasformato in protagonisti del mondo che cambia, dandoci nuove possibilità, tante responsabilità e uno spazio che non è stato semplicemente scoperto ma addirittura creato dal big bang tecnologico del nuovo millennio. Un universo digitale di cui c'è ancora tanto, forse tutto, da scoprire.

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