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'Don't Look Up'. Perché siamo ossessionati dalla fine del mondo
In questi anni la cultura pop ha riprodotto in modi non sempre particolarmente originali questa ossessione per la fine del mondo, contribuendo alla sensazione che “la fine” sia il tema di cui non si può non parlare. "Don’t look up", il film Netflix di Adam McKay con Leonardo DiCaprio, Jennifer Lawrence – e un cast con dei nomi senza senso – uscito a Natale è forse l’ultimo episodio di questa serie. Credo sia noto a chiunque, ma per non sbagliare: il film parla della scoperta di una cometa che si schianterà sulla Terra da lì a 6 mesi, condannando – in caso di inazione – l’umanità all’estinzione. Questa ossessione della cultura pop per la fine del mondo non è particolarmente recente.
‘Don’t Look Up’ e l’ossessione per la fine del mondo
Mio nonno poco prima della crisi energetica del 1979 si è rifugiato in montagna, in un posto senza acqua corrente, né elettricità. Per dire. Frank Bures, in un articolo uscito su Aeon qualche anno fa, passa in rassegna le imminenti fini del mondo che hanno costellato gli ultimi 45 anni: già a inizio '80 la guerra in Medio Oriente, la carestia in Africa, l’AIDS nei centri urbani più progressisti, i comunisti in Afghanistan per qualcuno erano i quattro cavalieri dell’Apocalisse. Più di recente la mucca pazza, la SARS, la suina, adesso la COVID-19. L’estinzione di massa, il riscaldamento globale, i terremoti, gli tsunami.
Tutti questi segnali sono – oltre che, letteralmente, pessime notizie e tragedie molto reali – pezzi di una specie di aggregato culturale che chiamerei “letteratura giornalistica” (che esiste ancora, credo) che racconta la fine, tutti i giorni. Anche senza questi segnali, però, l’uomo è sempre stato molto bravo a immaginare la fine e quello che ci sarà appena dopo la fine (il cosiddetto post-apocalittico).
Tutte le volte che il mondo è finito
"Independence Day" (1996), "Twister" (1996), "Dante’s Peak" e "Volcano" (incredibilmente entrambi del 1997), "Armageddon" (1998), "The day after tomorrow" (2004), "La guerra dei mondi" (2005), "2012" (ironicamente del 2009), "Contagion" (2011), "San Andreas" (2015), "Mad Max: Fury Road" (2015)... questo è solo un sottoinsieme limitatissimo di esempi recenti di “disaster movie” hollywoodiani, ma queste ‘storie della fine’ vengono da molto lontano ed esplorano una varietà di fini: dai virus ai tornado, dalle eruzioni vulcaniche ai terremoti, dagli tsunami alle improvvise glaciazioni, dagli asteroidi agli alieni.
"Don’t Look Up" però non parla davvero di una cometa, né della fine del mondo: è tutto una molto esplicita e piuttosto insistita allegoria del dibattito sulla crisi climatica (ma anche, volendo, sulla pandemia) che ha l’obiettivo di raccontare lo stato penoso in cui è ridotto il discorso pubblico e l’incapacità grottesca dell’umanità di affrontare qualunque minaccia, anche la più seria, in maniera se non efficace, almeno sensata. L’imperativo negativo del titolo, nel film, è quello del team repubblicano di Meryl Streep (presidente degli Stati Uniti, ve l’ho detto, il cast è senza senso) che invita a non fidarsi di chi – scienziati e semplici catastrofisti – dice molto prosaicamente di alzare la testa per vedere che la cometa esiste, che sta arrivando. È anche però un invito a non fare qualcosa. E penso che questo renda – al netto della qualità, per certi versi discutibile, del film – il titolo interessantee rappresentativo del tipo di fine più ansiogena per noi oggi, una fine che è legata alla qualità di “superorganismo” dell’umanità e all’impatto che la combinazione di miliardi di miliardi di scelte individuali ha sul posto in cui viviamo.
È interessante, in altri termini, che la fine che ci preoccupa di più sia progressivamente passata da eventi naturali fuori dal nostro controllo (calamità naturali del tutto indipendenti da noi) a eventi naturali che causiamo in maniere che non riusciamo a concettualizzare, o meglio, forse, che hanno dimensioni spropositate rispetto a quello che pensiamo di essere in grado di fare noi. Per chi ha tempo, esiste una bellissima serie di lunghissimi articoli di Tim Urban sull’inadeguatezza dell’attrezzatura emotiva e cognitiva che come specie abbiamo evoluto per affrontare il mondo come lo abbiamo costruito.
Come percepiamo la fine del mondo
Nel 2009 un amico era da poco tornato da un periodo passato a New York a studiare in una scuola di cinema. Il suo progetto di diploma era un cortometraggio su una ragazza che era in realtà Cristo, tornato per redimere i peccati del mondo una seconda e ultima volta, per quella che credo si chiami Apocalisse. La premessa originale del film era che la ragazza non faceva niente. Passava le giornate guardando la TV, mangiando, grattandosi, sempre in pigiama. L’idea era che rifiutasse di compiere il destino dell’umanità, che fosse o troppo pigra o troppo investita in quello che succedeva (pochissimo, eppure la fine di tutto) per prendersi davvero la briga di farla finita.
C’era un’espressione che ci piaceva in quel periodo, che faceva grosso modo così: “viviamo in un mondo ultimo, terminale, che non riesce a smettere di finire.” Sono passati più di 10 anni e successe anche un sacco di cose (quasi nessuna per la verità direttamente a noi), molte delle quali significative: una quantità di indizi che tutto stia ancora per finire, ma che nessuno capisca esattamente chi deve decidere quando o come succederà definitivamente. Anni costellati di tentativi, quasi tutti individuali e più o meno patetici, di fare di più, fare meglio, fare qualcosa, ma sempre senza dimenticare l’incombenza di esistere in ufficio, a casa, al pub.
Just ‘don’t’, o come contribuiamo alla nostra fine
Sono questi, almeno per me, anni caratterizzati da una forma di dissociazione generazionale: da un lato la retorica (che ha fatto presa soprattutto sui Millennial, o quantomeno su un loro sottoinsieme, orfani di qualunque politica del lavoro ragionevole) dei side gig, dell’hustling, del grinding, del “lavoro dei sogni”. È una retorica che ha alimentato l’idea del lavoro negli anni post-recessione in cui, parafrasando Nick Srnicek (Platform Capitalism) sono emerse nuove tecnologie, che hanno abilitato nuove forme organizzative e nuove modalità di sfruttamento, lavori che ereditavano titoli tradizionalmente con un’allure intellettuale e signorile, ma ora associati a posizioni ridicole (incerte e malpagate). Un sacco di noi sono diventati, volenti o nolenti e malgrado ci scherzassimo su dieci anni fa, “imprenditori presso se stessi”, richiamati anche dai payoff enormi che sembrano sempre a portata di mano (il sogno che vende la creator economy penso sia questo), ma solo a patto che non concediamo niente alla finzione (che non smettiamo di “fake it” finché non “make it”).
Dall’altro lato il senso di resa di fronte a una fine del mondo costantemente imminente: un attivismo fatto di confronti disarticolati e completamente inutili, performatività, costanti callout e mozioni per rimuovere qualcuno o qualcuna. E poi, soprattutto, forme di privazione che funzionano da statement, dispositivi di virtue signalling che raccontano quasi sempre quello di cui facciamo a meno, quello che non facciamo (non mangiamo animali, non usiamo la macchina, non accendiamo l’aria condizionata, non compriamo fast fashion insomma ci siamo capiti).
Sottrazioni praticamente sempre incarnate in scelte di consumo private, cosa che sottolineo per dire che nonostante gli strumenti di aggregazione storicamente senza precedenti disponibili oggi, le più grandi (e apparentemente inevitabili) tragedie che si consumano in questo momento dimostrano incapacità di azione collettiva che non siano mera aggregazione di preferenze/donazioni (perché vi vedo che volete citare le terapie intensive costruite in emergenza con fondi privati raccolti dal basso).
Forse in questo quadro ha particolarmente senso che la fine a cui contribuiamo senza capire bene come venga istericamente spettacolarizzata, trasformata (sublimata? rifratta?) in una quantità di oggetti di consumo culturale, invece che iscritta come una serie di punti in agenda.
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