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'Maid' racconta cos’è l’autodeterminazione per una donna

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Se “Maid”, la serie targata Netflix e creata da Molly Smith Metzler, potesse essere riassunta in una foto, sicuramente sarebbe “Migrant Mother” di Dorothea Lange. Perché gli sguardi della protagonista Alex e di Florence Leona Christine Thompson, la “madre migrante”, hanno in comune la stessa sofferenza di working mum heroine. Con una differenza: quelli blu oceano di Alex sanno ancora guardare a un futuro in grado di addomesticare la sofferenza. Proseguendo nella lettura troverete qualche spoiler.

La violenza in Maid

Alex sogna di diventare una scrittrice, ma rimane incinta di Sean: a un mondo di sogni e promesse si sostituiscono sofferenze e violenza. Sean inizierà, infatti, a essere sempre più dipendente dall’alcol, riportando a galla i traumi insuperati della sua infanzia. Vittima di abusi psicologici da parte del compagno, ad Alex verrà concesso solo di prendersi cura della piccola Maddy. Fino a che non deciderà di scappare. Ma subito si renderà conto del primo grande ostacolo e quando le verrà chiesto se voglia rivolgersi alla polizia, dirà: «Dovrei denunciare che non mi picchia?». Perché le violenze che subisce non lasciano né lividi, né graffi, ma sono reali quanto quelle fisiche.

Tanto che Alex si sentirà dire: «Prendere a pugni un muro vicino a te è violenza emotiva. Prima di mordere, abbaiano. Prima di colpirti, colpiscono quello che hai accanto. La prossima volta sarebbe stata la tua faccia, lo sai». Sola e senza un tetto, con una madre problematica e un padre assente e brutale, Alex si troverà a dormire per strada con la figlia Maddy. Non basterà passare le ore a strofinare, sgrassare e pulire come donna delle pulizie in lussuosi appartamenti: il conto in banca sarà sempre pronto ad abbassarsi e a umiliarla. In una spirale di violenza che è emotiva e domestica ma anche strutturale alla società stessa, pronta a dividere tra chi è utile perché produce e chi non lo è.

Il denaro come feticcio

Simone De Beauvoir diceva che non può esserci indipendenza senza quella economica. Alex lo sa bene, come sa bene che dalle sue possibilità economiche dipenderà l’affido della figlia. Ma il denaro non è solo strumento di indipendenza, né tantomeno un mezzo funzionale alla sopravvivenza: è soprattutto un’etichetta, un feticcio negli Stati Uniti raccontati dalla serie. Tanto che si è quasi costretti a giustificarsi per la loro assenza, mai per la loro presenza e il loro eventuale spreco. E se ci viene fatto un dono, si è costretti per sempre all’eterna riconoscenza verso il nostro benefattore, dal quale saremo divisi, proprio come Alex, da un debito che non è solo materiale, ma che, in una società che definisce le persone in base al conto in banca, è soprattutto spirituale. E morale.

La maternità come rivendicazione femminista

Alex è mamma e lavoratrice, ma non per questo si sente un’eroina: essere madre le viene naturale, non è un dovere da assolvere, anzi, è il suo strumento di autodeterminazione. In “Maid”, la maternità, torna a essere una questione in primo luogo femminile e femminista. Non c’è niente di mitizzato nell’Alex-madre: il suo legame con la figlia Maddy la definisce, ma non l’annulla. Il modo in cui Alex si riappropria della maternità è lo stesso con cui ci si riappropria del proprio corpo. E proprio per questo è rivoluzionario: nonostante la povertà, nonostante la violenza e una società pronta a eliminare chi non è all’altezza delle performance imposte, Alex è capace di rivendicare per sé il diritto ad autodeterminarsi, in tutte le forme in cui è possibile farlo.

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