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'Succession' racconta come soldi e potere trasformano i legami familiari

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La serie "Succession", ideata dal giornalista e sceneggiatore Jesse Armstrong e prodotta da HBO, ci fa entrare dalla porta principale nel mondo frenetico delle news statunitensi fatto di alleanze, tradimenti e scommesse perse, attraverso i quattro figli di Logan Roy, magnate multimilionario dell’informazione americana. In onda per la prima volta nel 2018 e arrivata alla sua terza stagione, la serie vanta come produttori esecutivi, Adam McKay, regista del recente "Don’t Look Up" e dell’episodio pilota, e Will Ferrell, uno degli attori comici più famosi d’America.

Cos’è Succession

La narrazione, probabilmente ispirata alla famiglia di Rupert Murdoch, fondatore della News Corporation, si apre con l’ottantesimo compleanno di Logan Roy, che sembra debba coincidere con il passaggio di testimone delle redini dell’azienda e del suo impero. Kendall (Jeremy Strong), uno dei primi figli che conosciamo e il protagonista indiscusso di questa serie, da poco uscito da un periodo di riabilitazione e di disintossicazione, sta solo attendendo che il suo nome esca dalla bocca del padre, dopo aver passato l’ultimo periodo della sua vita a lavorare per uno svecchiamento della società familiare. Logan lo accusa di «essersi messo a 90 gradi e fatto fottere» durante un’operazione di acquisizione: quando il figlio spiega di averlo fatto per essere presente al compleanno del padre e che non è sempre una gara a chi ce l’ha più grosso, Logan replica che «certe volte è davvero una specie di gara a chi ce l’ha più grosso». Basta la prima puntata per avere un assaggio fedele dei rapporti familiari che si svilupperanno, non senza colpi di scena, nel corso della serie.

I personaggi di Succession

Nella casa dei Roy, si muovono, alla ricerca di uno sguardo d’approvazione, tutti i figli di Logan. Connor (Alan Ruck), primogenito presentato come già escluso dalla stessa successione, consegna al padre un panetto di lievito madre, creato nel suo ranch eco-green, il suo ultimo gioco per superare la cosiddetta “noia erotica borghese”. Poi c’è Roman (Kieran Culkin), campione di black humor apparentemente più incline al vizio che a qualunque ruolo determinante in azienda, passa il suo tempo a provocare la gemella, Siobhan Roy (Sarah Snook) che si dimostra subito un’attenta manipolatrice e “cocca” di quel padre algido, unica Roy con un’occupazione al di fuori dall’azienda di famiglia.Tutti e quattro, su differenti livelli, volenti o nolenti, sono pedine di uno schema crudo e sempre uguale in cui i rapporti umani vengono valutati attraverso tre coordinate specifiche: soldi, fama e potere.

Una serie universale, un compendio sui rapporti umani

«Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo». Così scriveva Lev Tolstoj nel famosissimo incipit di “Anna Karenina”, e ancora oggi, nessuna descrizione famigliare sembra essere più azzeccata. “Succession", tra giochi di potere, inganni, investimenti sbagliati, rapporti ambivalenti, abusi, violenza psicologica, basa la sua narrazione sulla malattia dei rapporti di sangue, in continuo equilibrio precario tra il sopruso della figura paterna e la spasmodica rincorsa per il suo consenso, non solo di Kendall, ma di ogni figlio di Logan Roy. Secondo uno dei personaggi di un’altra serie tv, che basa la sua narrazione sugli intrighi di potere, «È tipico di mio padre, trarre vantaggio anche da una tragedia familiare». Siamo ne “Il trono di spade” e il personaggio in questione è Tyrion Lannister, anch’egli vittima di un rapporto malato con il padre, sembra essere una trascrizione medioevale del rapporto tra i Roy.

Kendall sembra essere l’unico figlio disposto a smascherare il padre, da cui non traspare mai affetto –, più si va avanti con la serie, più ci si rende conto di come questo sarebbe disposto a sacrificare tutto pur di mantenere il controllo e il potere nelle proprie mani, arrivando a ricattare i propri figli, buttati in una bolgia continua di rapporti intricati, senza sapere mai chi sta dicendo la verità e chi no. Quella di Logan è una lotta contro il tempo che scorre, rappresentata dai suoi stessi figli e dettata dall’incapacità di comprendere il mondo contemporaneo e la sua evoluzione. Logan rimane incredibilmente attaccato alla sua società, mettendo in scena uno scontro generazionale dettato dall’attaccamento al potere, dall’affetto forzato e dal legame di sangue nonostante la ripugnanza.

Kendall Roy e Tyrion Lannister sono, tuttavia, gli unici personaggi disposti a mettersi in gioco, fino in fondo, nonostante ciò li condanni a essere degli emarginati, figli isolati dai rapporti di sangue, che, in questo caso, sembrano essere più una condanna che una via di salvezza.

Perché non riusciamo a smettere di guardare Succession?

Ogni puntata riesce a farci immergere, in maniera progressiva, in un mondo lontanissimo da noi, in cui si mette in palio un milione di dollari per un touchdown in una partita di baseball e in cui alcuni personaggi si dimostrano disgustosi: ma allora perché non riusciamo a smettere di vederla? C’è qualcosa, in questa serie tv, che ci attrae quanto ci respinge, non parlo di sceneggiatura, di direzione della fotografia o di quanto abbia una delle migliori sigle degli ultimi dieci anni, quanto dei profondi legami famigliari, disfunzionali, che sembrano ricordare all’estremo la nostra tavolata a Natale. Sono i temi che hanno reso immortale già il "Re Lear" di Shakespeare: la successione tra padri e figli, i conflitti familiari, la vecchiaia.

Nonostante il privilegio e la schifosa ricchezza, riusciamo a vedere la definizione dei personaggi solo in base alla fragilità che li connette con il padre, eterno patriarca schizofrenico, che continua a respingerli e avvicinarli. “Succession” riesce a prendersi un posto tra le migliori family-drama degli ultimi anni, inserendosi tra quel capolavoro de “I Soprano”, la già citata “Il trono di spade”, passando per "Downtown Abbey”, finendo con “Shameless”.

La capacità di riconoscersi è, forse, l’ingrediente che distingue le “grandi” storie da tutte le altre, e niente di più lontano, e al tempo stesso familiare, è stata la lettura di “Un’educazione” di Tara Westover. Il libro racconta la storia autobiografica della giovane scrittrice, cresciuta in una numerosa famiglia di mormoni dell’Idaho che rifiuta lo Stato e la Scienza, come grandi nemici universali, i figli non sono iscritti all’anagrafe e non vanno a scuola, considerata “un luogo del demonio”, ma soprattutto non vedono dottori e si curano in casa, grazie alle “lozioni curative” preparate dalla madre.

L’educazione come emancipazione

La storia di Tara, come quella di Kendall, è intrisa di violenza e subalternità, sottomessa a un padre padrone quanto folle, che non le permette di guardare il mondo attraverso i suoi occhi, ma, anzi, le restituisce un’immagine del mondo falsata e autoritaria. “Un’educazione” è la storia di una famiglia disfunzionale e omertosa, dove le versioni dei personaggi principali non sembrano mai coincidere con quella di Tara, che, in alcuni momenti, non riesce a rendersi conto se la sua storia è quella reale o, se, è solamente frutto della sua fantasia.

Nonostante le differenze, direi abissali, di classe e geografia, sia Kendall Roy che Tara Westover, sono gli unici personaggi di queste due famiglie coercitive a decidere di voler essere più lucidi, di spingersi più in là e guardare il mondo attraverso i propri occhi. Come scrive l’autrice: «Potete chiamare questa presa di coscienza in molti modi. Chiamatela trasformazione. Metamorfosi. Slealtà. Tradimento. Io la chiamo un’educazione.» E che cosa, se non l’educazione, culturale e intellettuale per Westover, e sentimentale, forse, per Kendall Roy, a spingerli verso cesure necessarie, sia con il passato che con le proprie famiglie.

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