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Il lavoro minorile in Italia è tre volte più diffuso che in Europa
Il lavoro minorile è in aumento in tutto il mondo. Il rapporto cofirmato da Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro) e Unicef certifica un aumento straordinario: 8,4 milioni di lavoratori minorili in più in quattro anni. Un aumento iniziato prima della pandemia, e che segna un’inversione di tendenza rispetto al calo che era stato registrato nei primi 16 anni del terzo millennio. In particolare si è registrato un aumento significativo del numero di 'bambini-lavoratori', di età compresa fra 5 e 11 anni, che adesso costituiscono oltre la metà del dato globale totale. Il rapporto ipotizza anche uno scenario futuro: in soli due anni 50 milioni di bambini potrebbero essere costretti a lavorare.
Secondo il rapporto la crisi socio-sanitaria innescata dalla pandemia di Covid-19 minaccia di spingere altri milioni di giovani verso questa sorte. E pensare che solo a febbraio era stata firmata una risoluzione (anche dall’Ilo) che proclamava il 2021 come Anno internazionale per l’eliminazione del lavoro minorile, nel quale tutti gli stati membri si impegnavano ad agire per porre fine allo sfruttamento dei minori con leggi contro il lavoro minorile. Un obiettivo, peraltro, fissato anche dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, che stabilisce un anno limite entro il quale debellare il fenomeno: il 2025.
Storie di lavoro minorile in Italia
«Facevo il pescivendolo, dalle 4 e mezza di mattina fino alle 3 tutto il tempo a portare il ghiaccio senza guanti, gli chiedevo se aveva i guanti e mi diceva: “Ti devi abituare, sei giovane”. Avevo sempre il raffreddore. Alla fine mi ha dato 60 €». «Vedi i ragazzi piccoli che fanno i muratori: alzare un sacco di 10/15 kg sulla spalla porta problemi fisici, fallo andare sopra un’impalcatura di 25/26 metri senza casco, senza niente!». «Io avevo le vertigini e mi facevano salire su un’impalcatura di 20-25 metri. Il primo giorno stavo svenendo. E poi m’aggio abituato». «Avevo sempre la febbre quando lavoravo. Lavoravo la notte dalle 11 fino alle 11 del giorno dopo, vendevo le pezze, stavo tutta la giornata sveglio perché non riuscivo a dormire a casa mia dove tutti stavano svegli, non mangiavo bene. A fine mese mi davano 300 €».
Queste sono solo alcune fra le testimonianze raccolte nell’indagine Game over. Indagine sul lavoro minorile in Italia, pubblicata nel 2013 da Save The Children e dall’Associazione Trentin. Otto anni dopo, quest’indagine resta ancora (nonostante le sollecitazioni di cui parleremo) la migliore, quella più approfondita scritta sul fenomeno, basata su dati quantitativi e qualitativi. Il dato che emerge è che in Italia il lavoro minorile è ancora diffuso: si tratta di uno dei pochi paesi europei in cui si discute ancora (e lo si dovrebbe forse fare di più), cercando di trovare una soluzione al problema.
I dati sul lavoro minorile in Italia
Secondo l’indagine i minori tra 7 e 15 anni che lavorano potrebbero (è una stima) essere circa 260.000, oltre il 5% della popolazione in età, contro una media europea dell’1,5% (dati Cgil). Un dato che – suggerisce lo studio – può essere messo in collegamento con il fenomeno degli Early School leavers, studenti che abbandonano la scuola troppo presto, che in Italia ha un picco rispetto ai paesi europei. La mappatura del fenomeno è, purtroppo, aderente agli stereotipi: più a Sud si va più è alto il rischio di lavoro minorile. A Napoli e in Sicilia è calcolato come “molto alto”, così come in alcune province della Puglia, Sardegna, Calabria. Basso, molto basso o medio è invece il rischio nelle province del Centro-Nord.
Il rischio è calcolato in base a quattro fattori: demografia (la percentuale di 14-15enni sul totale della popolazione), la ricchezza pro-capite, la composizione della struttura produttiva (percentuale di occupati in settori specifici), il tessuto socio-culturale (percentuale di ragazzi a rischio abbandono scolastico). Oltre il 40% dei 14-15enni fa lavori occasionali, di brevissima durata, uno su 4 – tra quelli che lavorano – svolge attività regolari, di lunga durata. La maggior parte è impiegata in imprese a gestione familiare (soprattutto ristorazione, attività di vendita, in campagna).
Secondo un successivo (2017) rapporto del gruppo CRC (Gruppo di lavoro per la convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza) «il lavoro minorile concorrerebbe a immettere nel mercato quote di poor workers, aprendo una più ampia questione […]. Le esperienze di lavoro precoce nascono molto spesso come forma di sostegno alle attività professionali delle famiglie […] sostenute da famiglie convinte della funzione di responsabilizzazione svolta dal lavoro e con esigenze educative e di contenimento non pienamente svolte dalla scuola». Il rischio dietro l’angolo è che giovani adolescenti vadano ad alimentare il numero di lavoratori con salari da fame: «profili professionali poco qualificati, bassi salari e scarse risorse per contrattare un buon posizionamento nel mondo del lavoro». Sulla questione – che pure vede l’Italia tra le nazioni europee meno evolute – il gruppo CRC registra una scarsa considerazione da parte del Governo e raccomanda all’ISTAT di intraprendere un monitoraggio del lavoro minorile, strumento che manca dal 2000.
Le leggi sul lavoro minorile in Italia
In Italia si può lavorare dai 16 anni e bisogna aver frequentato la scuola per almeno dieci anni (intero ciclo della primaria, secondaria di primo grado e due anni di scuola superiore). Queste regole valgono per tutte le ragazze e i ragazzi in Italia (italiani o stranieri). La legge prevede che chi ha 16 anni compiuti e ha frequentato la scuola per dieci anni può lavorare. Dovrà però essere assunto con contratto di apprendistato per la qualifica o il diploma professionale. Sotto i 16 anni può lavorare solo chi svolge attività nel settore dello spettacolo, pubblicitario o sportivo. In questi casi servono però le autorizzazioni della Direzione Territoriale del Lavoro e dei propri genitori.
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