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Sono diecimila le vittime minorenni di mutilazioni genitali femminili in Italia

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Uno degli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile è quello di porre fine alle mutilazioni genitali femminili (MGF). Un progetto ambizioso che cerca di proteggere ogni anno dal rischio di mutilazione circa 4 milioni di bambine e ragazze nel mondo, reso ancor più complicato dalla situazione pandemica attuale. Secondo il Direttore Generale dell’UNICEF Henrietta Fore e del Direttore Generale dell’UNFPA Natalia Kanem, infatti, nei prossimi dieci anni potremmo assistere a un incremento di circa 2 milioni di casi di MGF, a causa della chiusura delle scuole e dei programmi di protezione. La sensibilizzazione, la prevenzione e il dialogo sono le armi per combattere il fenomeno.

Un fiore per accettarsi, la storia di Kartuma

Kartuma ha 18 anni, da sei è in Italia e da cinque vive insieme alla sua madre adottiva, Marzia Bianchi, nella vita artista e fotografa. Come tutte le ragazze ha affrontato quel fragile momento della pubertà: d’improvviso il tuo corpo cambia e giorno dopo giorno diventi una giovane donna. Nulla di nuovo, se non che l’imbarazzo di affrontare determinati argomenti con la propria madre è acuito da un trauma passato, perché Kartuma è vittima di mutilazione genitale femminile.

«All’inizio non potevo neanche pronunciare la parola “mutande” perché lei scappava dalla camera – racconta Marzia – figuriamoci parlare dell’apparato riproduttivo». Abbandonato il tentativo di ricorrere alle parole, per abbattere le differenze generazionali e culturali, madre e figlia hanno deciso di condividere un semplice gesto, cucire tra di loro i petali di un fiore. Nasce così il progetto fotografico F.L.O.R., come un escamotage: ago, filo e un’orchidea per riflettere insieme su una pratica perpetuata, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, su oltre 200 milioni di donne, la maggior parte delle quali avente meno di 15 anni.

«Nel Paese d’origine di Kartuma, la Somalia, non si può parlare liberamente di alcuni temi», racconta Marzia. «Mutilare dei fiori facendone delle piccole opere d’arte, è stato un modo per spiegarmi cosa le hanno fatto. Mentre scattavo le foto mi parlava dei procedimenti, degli strumenti che si usano, dal tipo di filo al tuorlo d’uovo. Prima di tutto però, le è stato utile per esorcizzare ciò che le è successo, per accettare il proprio corpo», per superare un trauma che ciclicamente lei e altre donne rivivono, durante i giorni delle mestruazioni, quando ci si reca dal ginecologo, quando si rinuncia alla lezione di educazione fisica a scuola.

Un trauma da non sottovalutare

Per il dottor Luca Bello, specialista in ginecologia e ostetricia, uno degli errori in cui si può incappare è quello di pensare alle poche conseguenze che possono scaturire anche da una mutilazione di tipo I, come, ad esempio, la rimozione parziale del clitoride. «Nonostante in alcuni casi non si presenti la problematica di una ricostruzione chirurgica e del ripristino dell’integrità genitale – racconta a VD – la donna, che può avere rapporti sessuali non dolorosi, ha comunque vissuto un trauma psicosessuale e quindi può necessitare di un percorso psicologico che la aiuti a riappropriarsi dell’immagine di sé».

All’interno servizio MGF di cui è responsabile – nato presso il Centro Multidisciplinare per la Salute Sessuale della città metropolitana di Torino e che fa capo all'ASL – l’approccio adottato non si ferma alle sole attività di diagnosi e terapia, ma fornisce anche supporto terapeutico alle proprie pazienti. «Cerchiamo di non creare più danni di quelli che possono esserci», afferma Anita Fortunato, ostetrica del Centro. «Rendersi conto di aver subito una pratica che compromette la tua salute riproduttiva, la tua vita e il tuo piacere sessuali, può essere molto più impattante che convivere con quella che è una tua tradizione. Noi abbiamo il compito di rendere il più dolce possibile questo passaggio grazie anche all’aiuto di mediatori culturali che ci rendono più facile la comunicazione e la comprensione di questo fenomeno».

Un dialogo tra culture differenti che passa dal linguaggio

Fondamentale è adottare un linguaggio inclusivo e non offensivo: «parlare loro di “pratica orrenda” è controproducente – sottolinea il dottor Bello – in questo modo diamo un giudizio vero nella nostra comunità occidentale ma non nella loro, con il rischio di non avviare alcun dialogo». Circa il 90% delle pazienti, infatti, per la maggior parte giovani e in età fertile, si recano all’ambulatorio sotto indicazione dello stesso personale sanitario: donne recuperate al parto, alla visita ginecologica oppure segnalate dai mediatori culturali. Fanno parte della prima o seconda generazione di migranti, vivono spesso isolate a casa, hanno poca o scarsa conoscenza della lingua italiana ma soprattutto ignorano il problema e le conseguenze che esso può comportare.

Le donne che si rivolgono al centro in autonomia sono poche, hanno un livello socioculturale elevato e possono definirsi integrate all’interno della società. «Una signora egiziana si è rivolta a noi per un intervento ricostruttivo, perché sposata in un secondo matrimonio con un italiano. Una studentessa universitaria di origine nigeriana, invece, è venuta in ambulatorio per capire se fosse mutilata o meno. Aveva letto alcune notizie riguardo le mutilazioni nel suo Paese e aveva paura fosse stato fatto anche a lei. Fortunatamente no, ma tutto ciò ci fa comprendere la scarsa conoscenza del fenomeno e anche dei propri genitali», dice il dottor Bello.

La sensibilizzazione al problema passa necessariamente dalla conoscenza dello stesso. Le MGF sono un fenomeno diffuso anche in Italia e reiterato nelle nuove generazioni. Stando infatti all’ultima indagine condotta sul territorio nazionale – realizzata nel 2019 dall’Università Bicocca di Milano, con il finanziamento del Dipartimento delle Pari Opportunità – nel nostro Paese si contano oltre 87 mila donne mutilate, di cui oltre il 10% minorenni. Il rischio che anche le bambine nate in Italia vengano sottoposte a mutilazione è alto perché, nonostante il ricordo di quanto subito sia descritto come un momento drammatico, si fatica ancora a riconoscere la pratica come una violenza.

«Kartuma ha amiche in Marocco e Tunisia non mutilate che la ritengono fortuna per esserlo, anche quando lei si lamenta dei forti dolori durante il periodo mestruale» racconta Marzia. «È una questione di attaccamento alla propria cultura», afferma Anita Fortunato. «Si cerca un collegamento che non ti faccia perdere contatto con la tua terra d’origine. Le donne che sono migrate in Italia o in altri Stati sono solite riportare le bambine nel loro Paese proprio per effettuare il rito».

Per cercare di contrastare questo tipo di viaggi, il servizio MGF di Torino è attivo nella segnalazione delle nuove nate da madri con MGF, al servizio di assistenza sociale ed alle mediatrici culturali presenti nei punti nascita per sensibilizzare le mamme ed i papà all’argomento e si impegna, facendo rete con varie realtà e associazioni, a raccogliere e condividere dati salienti al monitoraggio del fenomeno. La lotta al contrasto, quindi, cerca di intercettare e raggiungere direttamente le stesse comunità del territorio, con l’obiettivo di parlare dei rischi per la salute conseguenti alla mutilazione sia alle donne che agli uomini.

L’importanza della formazione

Dialogare con le nuove generazioni è allo stesso modo una questione delicata. «La tradizione fa sì che le bambine crescano all’interno di un ambiente in cui tutte le donne di casa presentano genitali mutilati ed è facile per loro pensare sia normale», afferma il dottor Bello. Anche per Kartuma è stato così: «le prime volte che ci siamo confrontate pensava che tutte le donne fossero mutilate», racconta Marzia. E se con la propria madre il discorso sulle diversità è stato affrontato, il problema però rimane quello di parlarne alle proprie coetanee italiane, per paura di non essere compresa: «Non saprei proprio da dove iniziare. Loro non ci credono che possano toglierti una parte del tuo corpo» confessa Kartuma. All’interno del contesto scolastico, le MGF ritornano quindi ad essere un argomento tabù, così come tutto lo spettro della sessualità in generale. L’unico modo per abbatterlo è quello di «parlarne in maniera costruttiva, in riferimento ad un contesto di educazione sessuale completa», afferma Anita Fortunato.

Fino a qualche anno fa anche nelle facoltà sanitarie le mutilazioni erano un argomento trattato nel solo ambito specialistico. Ora l’obiettivo è quello di formare il personale sin da subito: «Fare didattica è importante perché tanti operatori sanitari non sono ancora in grado di riconoscere le mutilazioni, soprattutto se di grado minore. Insieme ad un’antropologa ed altri colleghi ginecologici presso le facoltà di medicina, infermieristica e ostetricia dell’Università di Torino, facciamo lezioni volte non solo a individuare i segni anatomici di una donna mutilata, ma anche a come approcciarsi nel giusto modo ad essa» conclude il dott. Luca Bello.

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