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Se il giornalismo arriva alla pornografia (non consensuale), la crisi è compiuta
Che esista un cortocircuito tra le procure e i grandi giornali sulle intercettazioni è una triste realtà del nostro Paese. Lo vedemmo, volendo citare un caso tra i più commentati, per l’indagine su Suarez, quando furono pubblicate le intercettazioni tra gli indagati e il procuratore capo Cantone minacciò di “sospendere” le indagini e aprire un fascicolo per violazione del segreto istruttorio. Questo cortocircuito corre sul filo del rasoio tra diritto/dovere di cronaca da un lato e garantismo dall’altro, in uno spazio che è ancora opaco e dove chiunque legiferi rischia di sbagliare.
Al contrario del cortocircuito tra informazione e allusività sessuale che è, invece, molto chiaro e molto poco giustificabile. Lo abbiamo visto, ultimamente, con il femminicidio di Carol Montesi il cui mestiere, quello di pornoattrice, è diventato la parola chiave di numerosi titoli di giornale sul caso. «Pornostar fatta a pezzi»: i titolisti avrebbero citato il lavoro della vittima se fosse stata impiegata al catasto? Domanda oziosa, certo, al limite del retorico.
Il recente caso della presunta relazione tra una dirigente scolastica e uno studente di Roma ha sovrapposto questi due cortocircuiti toccando un nuovo apice di “pornografia giornalistica” (non consensuale). La pubblicazione dei messaggi privati tra preside e ragazzo sui giornali ha spinto il Garante della Privacy a intervenire.
Il Garante ha sottolineato che «gli stralci dei messaggi riportano dettagli relativi ai rapporti personali, anche attinenti alla sfera sessuale, tra la preside (identificata con il nome e cognome e con alcune sue fotografie) e lo studente del liceo, maggiorenne (circostanza che comunque non cambierebbe la gravità del fatto, ndr), di cui viene pubblicato il (presunto) nome, indugiando sulle frasi che si sono scambiati e sulle circostanze dei loro incontri, che nulla aggiungono alla necessità di fare chiarezza sulla vicenda».
Che, quindi, la loro pubblicazione non rispetta «il Codice privacy, il quale prevede che in caso di diffusione o di comunicazione di dati personali per finalità giornalistiche devono essere sempre rispettati i limiti del diritto di cronaca – rappresentati dalla tutela della dignità, della riservatezza, dell'identità personale e della protezione dei dati personali e, in particolare, il limite dell'essenzialità dell'informazione riguardo a fatti di interesse pubblico».
La pubblicazione di quei messaggi è il triste esito di una duplice crisi che ha investito il giornalismo: industriale ed etica – oltre che deontologica. La ricerca selvaggia di clic e vendite, per un settore sempre più in difficoltà nel rinnovarsi e trovare il posto che gli spetta nell’universo digitale, spinge a soluzioni sempre più estreme. Un sensazionalismo perseguito ad ogni costo che ha finito per incidere negativamente sul dibattito pubblico, ad esempio, in questi ultimi due anni così difficili. Anche perché, appunto, si è legato a uno smarrimento etico – ripetiamo, oltre che deontologico, visto che esistono regole a cui i giornalisti dovrebbero rispondere – dei professionisti del settore, che oggi appaiono sempre più alla ricerca di pubblico invece che al suo servizio.
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