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Cosa significa davvero convivere con la Sindrome di Tourette

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Siria Calzoli ha 22 anni e “da grande” vuole fare la ricercatrice. Ma per centrare l’obiettivo, sa che deve darsi tempo. La sindrome di Tourette richiede infatti «un grande sforzo di concentrazione ed energia». «Devo porre una grande attenzione in tutto quello che faccio, dal farmi la doccia, al mangiare, dallo studiare all’uscire con le amiche», racconta Siria a VD. «Non sono attività che mi vengono naturali. Mi rilasso solo quando dormo». Secondo le stime ufficiali, a soffrire della sindrome di Gilles de la Tourette, è circa l’1% della popolazione. Un numero altissimo. Eppure mancano professionisti specializzati nel suo trattamento. Molte famiglie si trovano, così, a vagare da uno studio medico all’altro alla ricerca di risposte, che rischiano di non arrivare mai. Come è successo all'attore Alessandro Borghi, che ha dovuto attendere anni prima di ricevere la giusta diagnosi.

La sindrome di Tourette e le diagnosi tardive

Nell’immaginario collettivo, avere la sindrome della Tourette corrisponde all’impulso di pronunciare parolacce nelle situazioni più diverse. «In realtà non è così», spiega Siria, che sul suo percorso con la malattia ha scritto anche un libro. «Io, ad esempio, avevo pensiero magico e un po’ di disturbo ossessivo compulsivo. Poi verso i tredici anni sono cominciati a venire fuori i primi tic motori e vocali, anche se nessun medico era riuscito a riconoscere la sindrome di Tourette. E alla fine sono stata curata per disturbo ossessivo compulsivo». La diagnosi è arrivata a vent’anni, dopo una brutta ricaduta. «Ho dovuto convivere tutta l’adolescenza con la sindrome di Tourette. Non è stato facile, soprattutto dai 14 ai 16 anni. Avevo crisi fortissime, mi contraevo tutta e la maggior parte delle volte rimanevo a casa e non andavo a scuola. Quando le crisi mi venivano a scuola la vergogna era tanta», dice Siria. «Non sapere poi di avere questa sindrome mi ha fatto vivere molto peggio. Mi sentivo sbagliata. È stato brutto. Passare sei ore ferma al banco era difficile, perché non riuscivo a stare ferma. Era tutto un muoversi, un contrarsi. Spesso chiamavo i miei genitori perché mi venissero a prendere».

Le continue crisi allontanavano Siria dagli altri. «Avevo pochi rapporti con i miei compagni di classe, che non capivano. Ma del resto neanche io non riuscivo a spiegarmi, nemmeno con gli insegnanti. Mi sentivo a disagio. Dai compagni, però, avrei voluto una maggiore comprensione. I miei tic non erano volontari, non volevo né attirare l’attenzione, né disturbare. Mi sarebbe piaciuto avere qualche amico in più». Durante i compiti in classe al liceo, Siria aveva bisogno del tempo aggiuntivo. «Ma i professori me lo concedevano con molta fatica. Adesso, all’università, dopo aver ottenuto la diagnosi di sindrome di Tourette, ho a disposizione diverse misure che mi aiutano durante gli esami. Ma per il momento, sono contenta che l’università sia a distanza, non vorrei mai che mi prendesse un attacco in aula. Non vorrei infastidire chi mi sta accanto. Sul senso di vergogna ci sto ancora lavorando: a distanza continuo a tenere la telecamera spenta».

La difficoltà più grande che Siria ha dovuto affrontare, però, è stata la mancata individuazione della malattia in tempi rapidi. «Non sapere che patologia si ha rende difficile affrontarla e gestirla quotidianamente. Nessuno mi ha mai chiesto perché mi muovessi o mi contraessi, ma mi sentivo osservata: la vergogna c’è sempre stata. Alle volte avevo tic così violenti che sbattevo la testa per terra», racconta. «Ero spaventata, i miei movimenti involontari erano aumentati tantissimo ed erano anche cambiati e accentuati. Pensavo potesse essere qualcosa di più grave, come una patologia neurodegenerativa». Quando è arrivata la diagnosi di Tourette per Siria è stato un sollievo. «Prima era come se stessi brancolando nel buio. Ero sempre alla ricerca di una cura, a dover rincorrere e gestire i sintomi senza sapere che disturbo avessi. Finalmente posso dire: “ho un tic perché ho la sindrome di Tourette”. È una consapevolezza in più per me».

L’approccio alla sindrome di Tourette in Italia

Come tante altre persone affette da Tourette, Siria è dovuta passare da uno studio medico all’altro in cerca di risposte. «Spesso i medici non mi spiegavano nemmeno la terapia che avrei dovuto affrontare. Li vedevo come nemici, perché mi davano i farmaci senza dirmi perché o per cosa». La colpa è della mancata formazione dei professionisti sul tema. Eppure, come spiega Fabrizio Scrimieri dell’associazione Tourette Italia, nel nostro Paese è plausibile che ci sia più di un bambino affetto da Tourette in ogni scuola. «Non esistono registri ufficiali, ma è chiaro che si tratta di una situazione non riconosciuta», dice. «Ma spesso manca la diagnosi. Questo crea equivoci, soprattutto a scuola, dove i tic sono scambiati per maleducazione».

«La Tourette in Italia non si studia sui libri», spiega Mauro Porta, neurologo e docente universitario. «La sindrome di Tourette ha un esordio infantile e nell’80% dei casi ha dei presupposti genetici. Tuttavia c’è una grande confusione intorno a questa malattia, che è accentuata dalla mancata comunicazione tra i professionisti delle varie specialità». Che spiega, almeno in parte, la mancanza di tempestività nella diagnosi. «In Europa si discute ancora se far rientrare la sindrome di Tourette tra i disturbi di natura psichiatrica o neurologica. Insomma, c’è un approccio schizofrenico». Che si ripercuote sui pazienti e sulle loro famiglie.

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