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Come informarsi sulla guerra in Ucraina senza impazzire

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Dal 24 febbraio le immagini dei malati di Covid in terapia intensiva sono state sostituite da quelle dei profughi ucraini e dei soldati al fronte. Foto e video dei reporter, dei civili e degli stessi militari intenti a combattere ci forniscono il racconto di una guerra vicina e reale verso la quale sembra impossibile rimanere estranei. Nonostante la nostra mente sia provata da due anni di pandemia narrati in termini bellici, non riusciamo a sottrarci al nuovo flusso totalizzante di informazioni. La salute mentale vacilla ma siamo pronti ad accettare tale rischio pur di soddisfare la fame di notizie.

Necessità di informarsi e continuare a vivere

Camilla ha gli incubi ogni notte. «Le immagini dell’attacco all’ospedale pediatrico di Mariupol mi hanno segnato», racconta a VD. «Avverto molta ansia e preoccupazione e credo che il motivo principale sia dovuto al fatto che la nostra generazione non abbia mai davvero conosciuto una guerra così vicina. Ai tempi della guerra in Kosovo eravamo troppo piccoli per comprendere cosa stesse accadendo». Malata di televisione, come si definisce, Camilla anche al lavoro guarda programmi di approfondimento, per rimanere sempre aggiornata. «La cosa che mi fa più arrabbiare è il racconto del conflitto da parte di alcuni programmi del mattino e del pomeriggio. Determinati temi necessitano di un’analisi puntuale. Il rischio è alimentare l’isteria generale. Molti di noi hanno amici, persone, coinvolte nella guerra. Si può perdere il controllo di sé in un attimo».

Anche Benedetta si informa in maniera costante. Per lei che lavora nella finanza seguire il conflitto è fondamentale per capire l’andamento del mercato. «Se non fosse per il lavoro, seguirei molto meno cosa sta accadendo in Ucraina», ammette. Le notizie le arrivano dal web e dai social network. «Percepisco uno stato di panico generale. È estremamente difficile muoversi all’interno dei vari siti e capire cosa sia vero e cosa no. Molti articoli partono con giri pindarici che non hanno né capo né coda. Non fanno altro che incutere ansia e terrore nella gente. Per questo molto spesso preferisco ascoltare un podcast o seguire il racconto dei reporter sul campo». Per Davide il problema principale è l’insistere su una comunicazione che faccia paura. «Quando i russi hanno preso la centrale di Chernobyl sembrava che fossimo sul punto di un disastro nucleare. In casi del genere è difficile non lasciarsi influenzare dal clickbait di turno, soprattutto se si è completamente digiuni del tema».

«Assistiamo in continuazione a una banalizzazione delle tematiche e a una spettacolarizzazione del dibattito pubblico e ciò non fa bene», racconta Francesco. Da persona che guarda spesso la TV, legge i giornali ed è molto attiva su Twitter, Francesco ha deciso di rivolgersi a dati statistici, esperti geopolitici terzi e agenzie: «i canali tradizionali che seguivo un tempo mi hanno stancato e deluso», ammette. A Emanuele l’informazione totalizzante degli ultimi giorni non genera ansia: «considerato l’impatto che la guerra ha in una moltitudine di ambiti – da quello politico ed economico a quello umanitario e sociale – è giusto che se ne parli in maniera dettagliata. Io mi aspetto informazioni che rispecchino il più possibile la realtà, anche se questa può essere drammatica e terrorizzante. Chi vuole evitare di pensare a un problema reale della società non può essere considerato una persona adulta e responsabile».

Un conflitto che ci coinvolge

«Va da sé che parlare di guerra sia faticoso e nocivo. L’argomento non ha una narrazione facile, che non porti sofferenza. Allo stesso tempo però non possiamo pensare di non accedere all’informazione», afferma la dottoressa Valeria Locati, psicologa e psicoterapeuta con base a Milano e nota su Instagram come @unapsicologaincitta. Il punto cruciale non risiede nella natura degli eventi in atto ma riguarda piuttosto il loro timing. «Il destino è beffardo», continua la Locati. «La guerra è iniziata negli stessi giorni in cui nel 2020 si registravano i primi casi di Covid. In termini di eventi traumatici, sembra esserci una situazione di continuità dalla pandemia ad oggi. La mente umana ha processato le informazioni come se ci si apprestasse ad una discesa verso gli inferi. Ad essere devastante è proprio l’idea che ci sia l’impossibilità di interrompere una comunicazione negativa». Se pur ormai abituati a termini quali battaglia, trincea, prima linea, nemico ecc. e a bollettini giornalieri riportanti il numero crescente di morti, non possiamo stupirci del fatto che il training verbale di questi ultimi due anni sia risultato, alla prova dei fatti, vano.

«La metafora bellica utilizzata nel racconto del Covid, lo dice la parola stessa, è appunto una metafora» continua la dottoressa. «Il problema ora è che non si tratta più di accedere ad un dato campo semantico. Questa volta abbiamo a che fare con qualcosa di reale e non ci si può ritenere “già abituati” ad affrontare la situazione». A rendere inoltre tutto più faticoso per la nostra mente è l’esposizione massiccia al linguaggio visivo. «Come lo è stato durante il Covid per le immagini delle bare a Bergamo, da tre settimane a questa parte abbiamo a che fare con immagini iconiche giorno per giorno. E l’immagine è un tipo di linguaggio molto più forte rispetto alla parola. In grado di farci provare emozioni nuove, devastanti, sicuramente molto più ansiogene di prima».

Un fattore da non sottovalutare riguarda poi la vicinanza del conflitto. È normale sentirsi preoccupati e maggiormente coinvolti rispetto alle altre guerre che si sono combattute e che si combattono tutt’ora. È facile, infatti, empatizzare quando si riscontrano somiglianze con il proprio vissuto. «Non tutte le guerre sono uguali per gli individui – continua la Locati – Noi umanamente possiamo sentirci vicini a chi soffre, però, per un meccanismo di sopravvivenza, non possiamo pensare di poter stare male per tutti alla stessa maniera. Altrimenti per ogni dolore provato da qualsiasi essere umano staremmo malissimo. Sarebbe pervasivo e impossibile da sostenere». Ecco quindi che le foto e i video dei profughi ucraini ci colpiscono con una forza maggiore rispetto a quelle dei profughi afghani o dei migranti sui barconi: «Vedere persone che si allontanano dalle proprie case con il trolley in mano è qualcosa di così difficile da comprendere da farci anche più impressione. Essenzialmente perché potremmo essere noi».

Il rischio di provare emozioni negative e ansia però non placa la fame di notizie crescente dei Millennials e Gen Z. Tra i propri followers e pazienti, la dottoressa Locati avverte una forte spinta alla comprensione di quanto stia accadendo: «I giovani adulti sono stati i soggetti più colpiti dalla pandemia ritrovandosi a un certo punto abbandonati a loro stessi. In questo momento trovarsi a fare i conti a livello cognitivo con una tematica così importante come la guerra non è proprio un fattore protettivo rispetto alla crescita. Nonostante questo, però, c’è in loro un bisogno enorme di capire i fatti, comunicare tra loro, fare rete e mettersi davvero al servizio della comunità. Non vedo in loro una maggiore preoccupazione rispetto alle generazioni più adulte che hanno già sperimentato l’esperienza di un conflitto “vicino”. Piuttosto stanno reagendo con un’intensità differente».

Le strategie per non lasciarsi sopraffare delle notizie

Il primo suggerimento sempre utile è quello di reperire le informazioni da fonti certe. Per chi sta male è importante evitare un grande sovraccarico di notizie. «L’indicazione che fornivamo durante la pandemia per chi si agita e ha attacchi di panico è ancora valida: controllare le informazioni una, due volte al giorno al massimo. Non refreshare la pagina web di continuo. In questo momento ci sono molte informazioni visive che colpiscono di più le aeree celebrali deputate alle emozioni e alla paura».

Altra cosa da fare – che potrebbe sembrare antitetica al porsi un limite informativo – è trovare del tempo per approfondire. Sì alla cronaca quotidiana raccontata dalla televisione e dai canali social ma, in quanto non siamo tutti dotati di competenze geopolitiche e storiche, è opportuno anche selezionare riviste di settore e leggere articoli di approfondimento. «Non serve solo essere a conoscenza dell’ultima ora. Occorre anche addentrarsi nella notizia. Rendere un po’ più completa quell’informazione che invece arriva solo a livello emotivo».

Ultimo ma non meno importante: parlare con qualcuno. Non solo chiedere aiuto sul piano psicologico se si dovesse stare molto male, ma anche confrontarsi con amici, familiari, colleghi. Costruire insieme dei significati aiuta a comprendere meglio le cose da punti di vista differenti. «Se la mia paura è devastante e non riesco a vedere altro al di là di uno scenario catastrofico, parlando con qualcuno riesco a immaginare altro. L’essere umano quando non sa riempie; e quando riempie lo fa di solito con scenari che non sono propriamente belli o positivi» Confrontarsi e dire “Questa cosa non la capisco, mi fa paura. Come la vedi tu? Parliamone” può essere un esercizio utile di confronto e vicinanza, anche per non rimanere soli. «Va bene informarsi, va bene seguire l’andamento dell’evento, ma è anche importante rendere più complesso il pensiero».

Le due ragazze ucraine che manifestano da sole a Milano

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