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Rinnovabili e climate change: per l’Italia il futuro è l’energia solare

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Gran parte del territorio di Lagos, megalopoli da dieci milioni di abitanti, si trova a due metri sopra il livello del mare. La città viene regolarmente allagata dalle “normali” piogge, e con l’intensificarsi dei fenomeni estremi rischia di affogare. Ma persino negli USA, dove la consapevolezza dei rischi legati al riscaldamento globale è sempre più diffusa, si fa finta di niente. A Miami si continua a costruire, e non solo case di lusso. In un mirabolante esempio di lungimiranza, la centrale nucleare Turkey Point ha recentemente ricevuto l’autorizzazione ad ampliare gli impianti con altri due reattori, nonostante le preoccupazioni legate all’innalzamento del livello del mare nei prossimi anni indichino che l’acqua si avvicinerà pericolosamente. Per non parlare delle raffinerie costiere del Texas.

Per lo scienziato Mario Tozzi faremo i conti col riscaldamento globale

Benvenuti nel XXI secolo. Difficile non fare i conti con il cambiamento climatico, che da argomento di dibattito nei salotti ecologisti sta entrando sempre più nel quotidiano. Anche in forme difficili da immaginare, fino a poco tempo fa. Ad esempio, i migranti. «Immagino che faremo il Morellino a Stoccolma e l’olio d’oliva a Bonn, mentre a noi resterà la palma da dattero – chiosa Mario Tozzi, geologo del CNR e divulgatore scientifico - Il territorio nelle aree circumdesertiche diventa sempre meno coltivabile, quindi la “casa” dove vorremmo aiutare queste persone semplicemente non esiste più. Il cambiamento climatico che ha portato vantaggi a noi attraverso le attività produttive da cui si è generato, a chi vive in quelle zone ha portato solo svantaggi. Il risultato? Nei prossimi 20 anni sono attesi 250 milioni di migranti a livello mondiale».

Ad opporsi alla lotta contro il climate change è soprattutto la lobby petrocarbonifera, ci dice Mario Tozzi, geologo del CNR e divulgatore scientifico
Ad opporsi alla lotta contro il climate change è soprattutto la lobby petrocarbonifera, ci dice Mario Tozzi, geologo del CNR e divulgatore scientifico

La lotta al cambiamento climatico

Forse è anche per questo che la lotta al climate change sta entrando di prepotenza nelle agende politiche di molti schieramenti dopo essere rimasto per decenni confinato nel perimetro dei partiti verdi. Non è detto sia abbastanza. Un report pubblicato recentemente dal National Centre For Climate Restoration, think tank indipendente australiano, ha rivisto le previsioni degli accordi di Parigi del 2015: il trattato, spiegano i ricercatori, non tiene conto del long term carbon feedback, cioè la serie di reazioni innescate nel pianeta dal climate change, una sorta di reazione immunitaria scarsamente considerata prima.

Le previsioni sono cambiate

Alla luce dei nuovi dati, le previsioni, ovviamente, peggiorano. Se fino a qualche anno fa si paventava un aumento di 3 gradi entro il 2100, il nuovo studio ha anticipato la data: a questi ritmi, sostengono oggi gli scienziati di Melbourne, e considerando la reazione immunitaria della Terra, si parla del 2050. Allo scadere del secolo i gradi in più potrebbero essere addirittura cinque. Il consenso sui ritmi del disastro, va segnalato, non è unanime. Senza arrivare al negazionismo trumpiano, altre fonti sono meno allarmistiche: due studi pubblicati sulla rivista Nature a inizio anno concludono che il ritiro dei ghiacci è stato, probabilmente sovrastimato. Resta un problema grave, sottolineano gli scienziati, ma almeno l’umanità avrà tempo a sufficienza per adattarsi.

L'azione individuale non basta secondo l'economista Arturo Lorenzoni

Ma chi ostacola la lotta al cambiamento climatico? «Ad opporsi seriamente è innanzitutto la lobby petrocarbonifera, che guadagna 30-40 dollari su ognuno degli 85 milioni di barili di petrolio estratti al giorno e che ha investito in diecimila miliardi di dollari di infrastrutture non ammortate» afferma Tozzi. Ma ci sono anche le coltivazioni intensive e gli allevamentiArturo Lorenzoni, professore di Economia dell’Energia all’Università di Padova, concorda: «Servono investimenti cospicui dalle entità statali, e non si tratta di cifre banali; ma c’è anche la resistenza di alcune delle industrie più capital intensive a livello mondiale nel non accelerare troppo il processo di conversione tecnologica».

Arturo Lorenzoni, professore di Economia dell
Arturo Lorenzoni, professore di Economia dell'Energia all'Università di Padova, sottolinea la resistenza delle grandi industrie alla conversione tecnologica

La speranza viene da paesi come la Cina

«La speranza viene dai paesi che hanno meno da perdere in questo senso, e che si stanno avviando con determinazione sorprendente su questa strada. Ad esempio, la Cina, che mostra volumi straordinari sulle auto elettriche». I dati dicono che nel 2023 il gigante asiatico diventerà il più grande consumatore mondiale di energia rinnovabile. «Ma anche la Norvegia, dove più del 50% delle vetture vendute nel 2019 sono elettriche. Certo, è un paese ricco che può permettersi di fare da apripista; ma mostra come sia possibile implementare un sistema dove energia elettrica, trasporti e riscaldamento convergono assieme a reti energetiche intelligenti e prestazioni rilevanti in termini di efficienza complessiva del sistema».

In Italia l'energia su cui puntare è sicuramente quella solare

Ma quali sono le fonti rinnovabili su cui puntare? domandiamo. «Non esiste una risposta univoca» riprende Lorenzoni «Molto dipende dalle caratteristiche del territorio. Fotovoltaico ed eolico stanno cambiando le prospettive dell’industria energetica, certo, e sono le tecnologie di punta». «Ma se l’eolico è una risorsa straordinaria per la Francia e la Gran Bretagna, paesi dotati di grandi risorse su costa atlantica per produrre con costi molto bassi, lo è molto meno per l’Italia. Qui abbiamo regimi di vento diversi e una configurazione territoriale differente, e il ruolo del fotovoltaico è senz’altro prioritario. Anche nelle regioni del nord, come ad esempio il Veneto». La tecnologia ha fatto passi da gigante. «Il costo delle celle – prosegue il ricercatore – si è ridotto di un fattore dieci negli ultimi dieci anni grazie alla caduta del prezzo del silicio, mentre la resa dei pannelli ha toccato soglie impensabili fino a cinque-sei anni fa». La misura più cost-effective per il nostro paese in termini di riduzione delle emissioni resta, però, l’efficientamento degli edifici, conclude lo studioso. «Coibentazione delle coperture, cappotto delle pareti e sostituzione degli infissi abbassano del 90% il consumo di energie edifici e quindi utilizzo combustibili fossili».

Il sogno per il nostro futuro è la fusione nucleare

E le altre tecnologie, ad esempio lo sfruttamento delle maree o del moto ondoso? «Sono residuali, adatte, al momento, a casi particolari ma difficili da impiegare su larga scala. Per arrivare a livelli di standardizzazione e ingegnerizzazione come quelli raggiunti nei settori maturi ci vuole tempo». Il sogno proibito, naturalmente, si chiama fusione nucleare. Ma, nonostante gli sforzi internazionali, i problemi di temperatura e stabilizzazione sono al momento insormontabili. «Certo, un balzo in avanti tecnologico inaspettato è sempre possibile; ma, per il momento, si tratta di una prospettiva poco probabile».

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