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La carne vegetale è un successo. Ma gli allevatori chiedono di non chiamarla carne
Si chiama carne vegetale il nuovo prodotto della start up californiana Beyond Meat, che da maggio è stata quotata a Wall Street sbaragliando completamente il mercato. Il prodotto, come si può intuire, non rappresenta solo un’alternativa alla carne tradizionale, ma un vero e proprio sostitutivo rivoluzionario: sfrigola in padella, sanguina nel piatto, ha sapore e odore che ricordano quello della carne. Tutto questo, naturalmente, non è piaciuto agli allevatori.
Cos’è la carne vegetale?
Prodotta su larga scala principalmente da Beyond Meat (dal lontano 2009) e Impossible Food, la carne vegetale non è altro che un’elaborazione sintetica delle sostanze e del sapore della carne.
Gli ingredienti della carne vegetale
- Proteine dei piselli gialli
- Olio di cocco
- Poco succo di barbabietola
- Amido di patate
- Estratto di lievito
Un prodotto, per così dire, da laboratorio, che però si è ritagliato una fetta importante nel mercato americano (per il momento), come testimoniano i dati di vendita: in crescita dell’8%, il settore rappresenta già l’1% del totale di carne venduta. Una crescita incredibile, che si è riflettuta anche in borsa, da quando Beyond Meat ha deciso di entrarvi: da maggio a giugno di quest’anno, le azioni sono lievitate da 25 a 85 dollari ciascuna (toccando un rialzo del 390%).
Perché Beyond Meat non piace agli allevatori?
Un boom che ha spinto anche grandi colossi, come McDonald’s e Burger King, a sceglierla come prodotto alternativo in alcuni punti vendita, tra Stati Uniti e Canada. Ma come ogni novità, anche la carne vegetale ha dovuto scontrarsi con chi, da molto tempo, controllava il mercato: gli allevatori. Non essendoci i presupposti per chiamarla concorrenza (di fatto, non è carne), associazioni di allevatori come la U.S. Cattlemen’s Association e la National Cattlemen’s Beef Association, hanno puntato i piedi non sul prodotto, ma sul suo nome.
Si tratta della contromossa di chi teme di essere scalzato dal trono: l’obiettivo della carne vegetale, come dichiarato da Ethan Brown (CEO di Beyond Meat), non è quello di rispondere a una scelta alimentare o etica (ad esempio la cucina vegetariana), ma quello di contrastare un settore, come l’allevamento, che contribuisce all’inquinamento globale quanto i mezzi di trasporto. La scarsa attenzione degli allevatori, che per produrre una bistecca spargono 330 grammi di Co2 nell’aria, ha contribuito alla nascita di questo fenomeno che, in piccole percentuali, è già arrivato anche in Italia.
Quasi come la carne
Andrea Megelli, cofondatore della catena di hamburgerie italiana WellDone, spiega così a Panorama il successo del Beyond Burger: «La clientela la apprezza moltissimo [...] e la stragrande maggioranza tra loro non sono vegetariani, ma carnivori sensibili al problema della sostenibilità della produzione di carne e delle sofferenze degli animali». Sotto la lente d’ingrandimento, quindi, non c’è tanto una tendenza, quanto la sensibilità del consumatore. Così, la carne vegetale si pone come intermediario tra l’ambiente e le nostre tavole, offrendo una soluzione ecosostenibile che non rinuncia alla tradizione. Proprio in questo solco, s’inserisce la protesta degli allevatori.
Certo, la carne vegetale non offre ancora la vasta gamma di ricette della carne tradizionale (viene prodotta sotto forma di “macinato” e si presta meglio sulla piastra che in friggitrice), ma allo stesso tempo mette sotto i riflettori un problema che, per chi alleva, non sembra esser tale. La carne vegetale, infatti, risponde alle esigenze di un consumatore sempre più responsabile e, solo per questo, meriterebbe di esser chiamata “carne”. Non rappresenta per forza il futuro, ma se non altro può dare la giusta spallata a chi sostiene ancora che l’allevamento intensivo sia l’unica strada per rispondere alla domanda dei carnivori nel mondo.
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