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La violenza domestica non è andata in quarantena col coronavirus
In tempi di coronavirus, la violenza domestica non va in quarantena: per tante donne l’hashtag #iorestoacasa suona più come una condanna che come una precauzione. In una situazione in cui si è costretti a vivere ventiquattr’ore su ventiquattro con un marito o un compagno maltrattante, rischia infatti di scatenarsi un’epidemia parallela, quella degli schiaffi, dei “non vali niente” detti davanti ai figli e dei segni lasciati sul viso. Ma la rete nazionale D.i.Re, che raccoglie oltre ottanta organizzazioni che gestiscono centri antiviolenza, ricorda alle donne che non sono sole: l’aiuto è a distanza di cornetta.
Meno telefonate, più violenza
Un’equazione che purtroppo si presenterà con tutta la sua drammaticità solo a fine quarantena è quella che mette in relazione il numero di telefonate al numero di situazioni di maltrattamento. Cinzia Maroccoli, presidente di Telefono Donna di Potenza, ci dice che: «Per le donne è difficile chiamare perché con il partner in casa c’è più controllo e poi ci sono anche i bambini a cui dover badare». «Questo silenzio è preoccupante, perché non è indicatore di armonia ma di tutt’altro». Stessa situazione anche al nord.
Mariangela Zanni, consigliera D.i.Re per il Veneto, ci spiega che le telefonate sono riprese solo adesso. «Ѐ una contrazione fisiologica, sappiamo che le donne stanno convivendo con il marito o il compagno maltrattante h24. Siamo preoccupate per quello che accadrà dopo». Preoccupazione che purtroppo appare fondata. Angela Romanin, della Casa delle Donne di Bologna ha dichiarato, infatti, che «sono diminuite le telefonate ma potrebbero aumentare le richieste d’aiuto da parte di donne che hanno subito un’aggressione». L’effetto cinese, dunque, con i casi di violenza domestica hanno registrato un picco in seguito alla convivenza forzata di queste settimane, è dietro l’angolo.
Le case rifugio in tempo di quarantena
I centri antiviolenza si sono subito organizzati per far fronte all’emergenza, ma adesso, la situazione comincia a far sentire il suo peso. Le strutture di accoglienza hanno una disponibilità limitata di posti e, con la minaccia coronavirus, molte donne hanno paura dei nuovi arrivi. Mariangela Zanni ci spiega che, al momento, i centri sono in attesa delle direttive ufficiali. «Due settimane fa abbiamo gestito un’emergenza grazie a un airbnb, dove una donna è stata messa in quarantena».
«Ma adesso la situazione è più complessa. Sappiamo che il prefetto può requisire alcune strutture per la quarantena. Forse si potrebbe fare qualcosa di simile per gestire un’eventuale situazione di violenza. Non sappiamo nemmeno se gli appartamenti privati sono ancora a disposizione». Insomma, si procede a vista, ma, assicura Zanni, nessuna donna sarà lasciata sola. «Ѐ importante che le donne sappiano che noi ci siamo e che troveremo una soluzione».
I fondi della discordia
La ministra delle Pari Opportunità Elena Bonetti ha annunciato in questi giorni di aver sbloccato i 30 milioni previsti per il 2019, «pur in assenza della programmazione da parte delle Regioni, normalmente richiesta nell’iter ordinario», come si legge sul sito del dipartimento. In pratica, di questi 30 milioni, 20 saranno destinati alle operazioni ordinarie dei centri antiviolenza e delle case rifugio, mentre 10 milioni, che in situazioni di normalità avrebbero dovuto essere destinati alle attività collaterali, «dovrà essere prioritariamente impiegata per il sostegno delle iniziative che i centri antiviolenza e le case rifugio devono adottare in questi giorni per far fronte all’emergenza da coronavirus».
Ma, per la rete D.i.Re i fondi ordinari non sono sufficienti, soprattutto in assenza di una progettualità da parte delle Regioni, a cui per legge spetta la gestione delle risorse. Ma Mariangela Zanni, consigliera D.i.Re per il Veneto, sottolinea che i fondi ordinari servono a finanziare il minimo indispensabile dell’attività dei centri. E mentre dalle istituzioni tutto tace, la violenza rientra silenziosa fra le mura di casa.
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