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Vietare il velo: liberazione o ennesimo atto di controllo sulle donne?

Una donna con sguardo minaccioso e una scritta nera su sfondo rosso: «Fermiamo l’estremismo». Della donna si vedono solo gli occhi, che spuntano nel niqab, il velo islamico integrale usato da una minoranza di donne musulmane. In un’altra versione del cartellone anche gli occhi sono coperti, mascherati da due occhiali da sole neri. Si tratta della propaganda che il Comitato Egerking ha portato avanti nelle ultime settimane per sostenere il “Sì” al referendum che in Svizzera ha sancito - con il 51% di voti favorevoli - il divieto di dissimulare il proprio viso negli spazi pubblici. Una modifica alla Costituzione che ora è effettiva nei 26 cantoni svizzeri e contiene nuove misure pensate, almeno ufficialmente, per garantire l’incolumità di tutti. In realtà, lo stesso Comitato Egerking ha promosso il “Sì” non perché avesse a cuore la sicurezza pubblica ma per organizzare la «resistenza contro le pretese di potere dell’Islam politico in Svizzera», riaprendo - senza volerlo - il dibattito sulla condizione delle donne musulmane.

Il velo islamico, tra sicurezza e islamofobia

I numeri che riguardano le donne musulmane in Svizzera sono estremamente esigui, eppure la questione, sulla spinta dei comitati islamofobi, è diventata di rilievo nazionale. «C’è questo paradosso: il referendum è stato fatto in nome della sicurezza, ma con la mascherina è come se tutte avessimo il niqab», spiega a VD Assia Belhadj, mediatrice culturale e fondatrice del Movimento delle donne musulmane d’Italia. Come in Svizzera la questione sicurezza sia stata un paravento dietro il quale si sono nascoste le pulsioni dell’estrema destra, lo spiega Alia Himmat, architetta, attivista e membro della comunità islamica ticinese: «In Svizzera si è molto giocato su costrizione e libertà, sui pregiudizi e sulla non conoscenza reciproca. Il partito Udc non si è mai confrontato con le donne musulmane. Chi porta il velo islamico integrale rappresenta lo 0,0003% della popolazione», afferma Alia.

Il velo e i pregiudizi sull'Islam raccontati da Sveva Basirah

Liberazione o controllo?

Un altro modo di indorare la pillola: c’è chi sostiene che, con queste misure, si potranno liberare le donne «dall’imposizione del velo islamico». «Chi vede da fuori non capisce, questo è un percorso personale. Al velarsi e alla donna musulmana è associato tutto un pensiero negativo. La legge, così com’è, imprigiona chi si vorrebbe liberare: questo tipo di normativa costringe in casa chi si sente a suo agio a uscire solo con il niqab o con il burqa», aggiunge Alia Himmat. «Penso che il velo faccia così paura perché si pensa ai musulmani come terroristi», aggiunge Chiara - attivista queer diciottenne - convertita all’Islam. Cosa c’è dietro la questione sicurezza? «Possiamo ipotizzare che ci sia un tema di uniformità. Ma è già bastata l’emergenza Covid per far saltare queste regole. Ora siamo tutti molto poco riconoscibili. E poi la tendenza a rendere omogenei non si sposa affatto con la libertà», spiega a VD la Professoressa Maria Giuseppina Muzzarelli, docente di Storia e patrimonio culturale della moda all’Università di Bologna e autrice di A capo coperto. Storie di donne e di veli (Il Mulino, 2018). «Le nostre città sono luoghi di convivenza di persone di tante provenienze. Come si fa a imporre uno stile prevalente? Dalle nostre parti si riconosce la libertà di vestirci come ci pare, e questa libertà deve tenere conto di tutti, altrimenti non è una libertà. La libertà comporta il prezzo di accettare alcune cose che possono non piacere», aggiunge la professoressa Muzzarelli.

Il velo in Occidente

«Molte donne hanno scelto il niqab come si sceglie una minigonna. Con questo referendum la Svizzera mette in discussione il suo essere un Paese civile», spiega Assia Belhadj. «Il velo non è una questione islamica, esiste in tutto il mondo ed è una scelta personale. A volte si dimentica la storia. Il messaggio che passa è che chi indossa il velo islamico è una donna sottomessa. Ci sono tante persone che vogliono liberarci. Ma siamo libere». A dare una valenza di sottomissione al velo sono i cristiani, spiega la professoressa Muzzarelli: «Il velo è stata una caratteristica del mondo mediterraneo, la copertura del capo ha attraversato le civiltà. Mia nonna - racconta la professoressa - non è mai uscita di casa a capo scoperto, non era una musulmana, credeva semplicemente fosse un corredo necessario. In ogni civiltà il velo ha assunto caratteri interpretativi. Nel mondo cristiano è stato appesantito di modestia e sottomissione basandosi sulle parole di San Paolo». E, in effetti, il Corano, se da un lato prevede che le credenti si coprano, dall’altro prescrive che non ci sia costrizione nella religione. «Una donna deve sentirsi pronta a mettere il velo islamico. Dentro l’Islam c’è diversità, chi indossa il niqab o il burqa è una minoranza. Sono pochissime le donne che lo fanno. Poi ci sono anche credenti che non portano nemmeno l’hijab. E nessuno può giudicarle. Ognuno è responsabile di fronte ad Allah», spiega l’architetta ticinese. «In Ticino c’è un convento di clausura, però non ho mai pensato di forzarne la porta per liberare le monache da una vita di costrizioni. Secondo noi, questo referendum potrebbe essere l’inizio di una serie di limitazioni: prima si inizia con il niqab e il burqa e poi, piano piano, arriviamo al velo, all’hijab. C’è un partito, il PPD, che ha già iniziato a fare campagna per togliere il velo dalle scuole: si fa politica contro il debole, colpendo chi non ha voce».

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