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Torture sui detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere

Un enorme buco nero nel sistema penitenziario. È l’immagine suggerita dai fatti avvenuti nell’aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, provincia di Caserta, dove quasi 300 agenti della polizia penitenziaria repressero con una violenza «degradante e con iniquità insostenibile» - come si legge negli atti - una protesta scoppiata il 6 aprile: erano le prime settimane di lockdown, i detenuti chiedevano dispositivi di protezione. I fatti che seguirono furono di un’atrocità che ha pochi eguali, descritte nell’ordinanza firmata dal Gip Sergio Enea che aggiunge (agli arresti già eseguiti in precedenza) 52 ordinanze di misure cautelari, otto delle quali in carcere. Per i pubblici ufficiali le accuse – a vario titolo – sono di molteplici torture pluriaggravate ai danni di detenuti, maltrattamenti pluriaggravati, lesioni personali pluriaggravate, falso in atto pubblico, calunnia, favoreggiamento personale, depistaggio e frode processuale.

I giorni precedenti alle torture

L’intera vicenda comincia nei primi giorni di aprile del 2020. Alcuni detenuti protestano dopo aver appreso la notizia del primo affetto da Covid-19 nel carcere. Sono settimane di grande tensione, per tutti gli italiani. Era trascorso meno di un mese da quando il Premier Giuseppe Conte aveva annunciato le prime restrizioni: per chi è in carcere sono giorni terribili, tra la preoccupazione per chi è fuori e la consapevolezza di non poter fare nulla. Nella notte tra domenica 5 e lunedì 6 aprile cento detenuti circa del Reparto Nilo chiedono con rabbia e disperazione di avere dispositivi individuali di protezione, in un carcere dove mantenere il distanziamento sociale è un’utopia. La protesta scema in modo naturale poco dopo, si legge nella ricostruzione del tribunale sammaritano.

Le violenze fisiche e verbali

«Era il minimo segnale per riprendersi l’istituto» e «Il personale aveva bisogno di un segnale forte». Queste due linee guida in capo alla catena di comando (tra gli indagati ci sono anche il Provveditore Regionale per la Campania e il Commissario coordinatore della Polizia Penitenziaria) danno vita a quattro-cinque ore di «mattanza», come la definisce il Gip. Viene disposta una perquisizione straordinaria generale nei confronti di 292 reclusi (una perquisizione che - sostiene la Procura - è operata al di fuori dei limiti della legge). A Santa Maria Capua Vetere arrivano 144 unità esterne (superando peraltro il limite di 100 unità esterne disposto dallo stesso Provveditore). In tutto, tra esterni (Gruppo di supporto agli interventi) e interni, nel penitenziario casertano agiscono, in quel terrificante pomeriggio, quasi 283 agenti, molti ancora da identificare. Tra i 283 c’erano anche alcune donne.

Tra i vari capi d’accusa si legge di un’azione collettiva portata avanti «mediante una pluralità di azioni contrarie alla dignità e al pudore, degradanti e inumane, prolungatesi per circa 4 ore del giorno 6 aprile 2020, consistite in percosse, pestaggi, lesioni – attuate con colpi di manganello, calci, schiaffi, pugni e ginocchiate, costrizioni e inginocchiamento e prostrazione, induzione a permanere in piedi per tempo prolungato, faccia al muro, ovvero inginocchiati al muro – e connotate da imposizione di condotte umilianti, quali, ad esempio, l’obbligo della rasatura di barba e capelli». A un detenuto (che ha poi riportato traumi contusivi multipli e un trauma psichico accertato) un agente si rivolge così: «Napoletano di merda, vi dobbiamo rompere il culo, vi veniamo a prendere di notte». Il detenuto viene costretto a spogliarsi, a fare flessioni, viene condotto in un corridoio umano dove viene colpito a manganellate e da sputi.

Alcuni agenti lo minacciano di morte. Un altro detenuto viene condotto in una stanza, fatto inginocchiare e circondato da agenti in assetto antisommossa che gli dicono: «Adesso lo Stato siamo noi» prima di colpirlo con manganellate sulla testa, poi su schiena, glutei, e infine con schiaffi e pugni. A un altro detenuto viene rivolta la seguente frase: «Porco, sei un uomo di merda, una latrina, sei un porco, sono meglio di te». C’è chi viene costretto, dopo le botte, a scrivere il proprio nome: la penna trema sotto tortura, e arrivano altri schiaffi. C’è chi chiede di bere, un agente risponde «Beviti l’acqua del cesso». Allo stesso detenuto viene praticata un’ispezione anale con un manganello.

Vantarsi degli abusi in chat

Nelle ore che seguono la violenza c’è chi si occupa di falsificare gli atti d’ufficio per «giustificare» gli spostamenti di cella. Alcuni detenuti vengono messi in isolamento preventivo. Spiega il giudice: «Non c’era nulla osta, non c’era provvedimento motivato, mancava la visita medica dopo il pestaggio». In isolamento questi detenuti non ricevono lenzuola, cuscini, indumenti. C’è chi resta così per più di due settimane. «Un regime punitivo vessatorio e degradante, espressione di una iniquità insostenibile, tale da incidere gravemente sull’equilibrio della psiche umana», si legge nell’ordinanza.

A supportare le indagini ci sono molti elementi, taluni schiaccianti: le immagini di videosorveglianza, innanzitutto, che dimostrano i fatti per quello che sono. E poi ci sono le conversazioni private di numerosi agenti, le chat. Si passa dall’esaltazione alla disperazione. «Domate il bestiame», si dicono quando sanno della perquisizione straordinaria. «Li abbattiamo come vitelli», «Il tempo delle buone azioni è finito». Poi arrivano i commenti a caldo: «Quattro ore di inferno», «ripristinato l’ordine», «di sette sezioni non se ne è salvata nessuna», «che spettacolo», «carcerati di merda, arroganti e schifosi». Qualche giorno dopo comincia a trapelare la notizia del sequestro delle immagini: «Ci andranno pesante», «Travolgerà tutti», «Gestita male e finita peggio», «Non vorrei pagare per tutti».

Trentatre anni per il reato di tortura

In Italia il carcere, quindi, può diventare un enorme buco nero che risucchia e annichilisce, prima di tutto la dignità del detenuto e, anche, del suo carceriere. Un buco nero alimentato da storture nazionali: la tendenza, da un lato, delle forze dell’ordine, a ricorrere facilmente e abusivamente alla violenza, dall’altro, delle alte gerarchie di quelle stesse forze a garantire impunità agli agenti. Per questa forza inerziale il reato di tortura è stato assente nel codice penale italiano per più di trent’anni. Un’assenza che era stata stigmatizzata persino dalla Cassazione nel 2014, poi era intervenuta la Corte di Strasburgo nel 2015, nel 2016 e infine nel 2017. Tutto questo mentre nel nostro paese si consumava il solito dibattito pubblico all’italiana: sconclusionato e distruttivo.

Grazie all’azione del parlamentare Luigi Manconi (PD), la situazione infine si sbloccò e fu introdotto il reato di tortura nel codice penale e, con l’intervento del Ministro dell'Interno Marco Minniti e del Capo della Polizia Franco Gabbrielli, anche istituito un piccolo Ufficio Affari Interni dotato di sei ispettori che vigilava sul lavoro dei poliziotti (ma non su quello di Carabinieri e Guardia di Finanza). Un percorso lungo trentatré anni, durante i quali si sono consumate le violenze della Diaz, la «più grave sospensione dei diritti umani in Europa occidentale dalla Seconda Guerra Mondiale» per Amnesty International. E oggi, quattro anni dopo quel traguardo legislativo, ripiombiamo nell’oscurità di un ennesimo buco nero tra le sbarre del carcere di Santa Maria Capua Vetere.

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