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I manicomi esistono ancora. In carcere

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La dismissione degli ospedali psichiatrici giudiziari è un capitolo della storia molto recente del nostro Paese. Una commissione parlamentare d’inchiesta, presieduta dal senatore Ignazio Marino, indagò tra il 2008 e il 2011 le condizioni degli Opg, ospedali psichiatrici giudiziari (e dei suoi ospiti), scoprendo un «estremo orrore che umilia l’Italia rispetto al resto d’Europa» – come lo definì l’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Un video proiettato al Senato, a inchiesta conclusa, restituì un quadro angosciante: strutture cadenti, condizioni igieniche inesistenti, letti metallici, sporcizia, barbare regole di contenzione, abbandono e solitudine. Quell’inchiesta gettò le basi della legge 81 del 2014, che avrebbe portato alla chiusura degli Opg e alla nascita delle attuali Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza). Una conquista ora messa in discussione: la Corte Costituzionale dovrebbe a giorni decidere sulla legittimità di quella legge 81 in seguito all’ordinanza di un giudice di Tivoli. Quali sono le differenze tra Rems ed ex Opg e quali sono le attuali condizioni di detenzione, nelle residenze per “folli rei” e nelle articolazioni psichiatriche delle carceri (come il famigerato reparto Sestante di Torino)?

La storia delle Rems, nate per sostituire gli Ospedali psichiatrici giudiziari

Nel febbraio del 1986 l’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa (Caserta) “Filippo Saporito” viene sconvolto da una serie di delitti. Nelle cronache dell’edizione di Repubblica del primo marzo si parla di «un lager con detenuti che si aggrediscono, si picchiano a sangue, si uccidono». L’Opg aversano è intitolato a Saporito, direttore del primo manicomio civile, medico attivo a inizio ‘900 che definiva i reclusi «delinquenti impazziti che portano scompiglio». In quel febbraio 1986 si contano, in meno di dieci giorni, tre morti ammazzati. A uno dei tre vengono cavati gli occhi. Si chiama Pierino Marenzi, ha 45 anni. A ucciderlo è stato – riportano le cronache – Massimo Venezian, che nel 1986 ha 24 anni ed è nato a Sapri, in Cilento. A Venezian manca un anno per la fine della reclusione in ospedale giudiziario. In realtà, dopo quell’omicidio, la sua pena si prolungherà per anni e anni, fino a farlo diventare una sorta di recordman di istituzionalizzazione della pena, uno degli internati più vecchi d’Italia. Fino alla primavera del 2021, 35 anni dopo quel delitto, il quasi sessantenne Massimo Venezian faceva ancora parte di una Rems, le residenze che ospitano i destinatari di misure di sicurezza affetti da disturbo mentale e socialmente pericolosi.

Le Rems hanno sostituito gli ex Opg, chiusi con la legge 81 del 2014 dopo le ispezioni della Commissione parlamentare di inchiesta sugli Opg. Massimo Venezian ha vissuto per circa 30 anni in ospedali psichiatrici giudiziari, poi è passato in una Rems. Nella primavera del 2021, motivando il suo trasferimento in libertà vigilata verso una casa di cura e negando un nuovo ritorno in Rems, il Magistrato dell’ufficio di Sorveglianza di Potenza sottolineava che «i sintomi di tipo regressivo sono dovuti alla lunghissima istituzionalizzazione» e aggiungeva: «Ripetutamente la Asl ha evidenziato che la processualità del disturbo psichico è stata aggravata dalla lunga istituzionalizzazione e dalla privazione di stimoli». In tre decenni tra Opg e Rems la salute mentale di Venezian è peggiorata. Ora – racconta a VD chi lo ha conosciuto – l’uomo ha una dispercezione dello spazio e di se stesso, ha sviluppato suoi rituali (si china e lecca il muro, ad esempio) ma non è pericoloso a meno che non sia costretto a riscoprire la violenza che ha interiorizzato negli anni.

Cosa sono le Rems e chi sono i detenuti oggi

Nelle 31 Rems italiane sono ricoverate 551 persone, secondo i dati raccolti da Antigone e pubblicati nel XVII rapporto sulle condizioni di detenzione. Di queste 551 persone, 489 sono uomini e 62 donne. Quasi tutte hanno compiuto reati molto gravi ma sono non imputabili o semi imputabili perché giudicate incapaci di intendere e volere. Restano, però, “socialmente pericolosi”. Ai tempi delle ispezioni – che poi portarono alla chiusura degli Opg – gli internati negli ospedali psichiatrici giudiziari erano 2182. Dal 2012 il numero di persone recluse è in costante calo. Le Rems sono strutture esclusivamente sanitarie, gestite da Asl, con una spiccata vocazione sanitario-trattamentale, nelle quali non c’è polizia penitenziaria (ma che sempre più spesso ricorrono alla vigilanza privata). A differenza delle carceri, che possono sovraffollarsi, i posti nelle Rems sono contati. Se qualcuno ha bisogno di un posto in una delle residenze finisce in una lista d’attesa. Nel frattempo resta in carcere o in libertà vigilata.

«Il ricovero in Rems dovrebbe essere l’extrema ratio, quando non ci sono altre possibilità», spiega a VD Michele Miravalle dell’Osservatorio Adulti sulle condizioni di detenzione di Antigone. «C’è un momento in cui hai bisogno di un trattamento intensivo. Però dovrebbe durare mesi, non anni». La durata media del ricovero in Rems è di 236 giorni, in crescita costante da anni. «C’è il rischio di trasformazione delle Rems in cronicari, dove la durata del ricovero non dipende affatto dalle condizioni di salute ma si prolunga per il solo fatto che non si riescono a trovare soluzioni altre. Bisognerebbe invece diminuire la durata e anticipare la presa in carico da parte dei servizi locali», spiega Miravalle. «Oggi le Rems stanno diventando fortini nei quali non si entra e dai quali non si esce».

Si legge nel rapporto che il ritorno in libertà è un’ipotesi molto rara: dei 172 pazienti dimessi nel 2020 solo uno è andato agli arresti domiciliari. Il 72% passa alla libertà vigilata, in strutture preposte. Miravalle spiega che dopo la residenza molto spesso «i percorsi si trasformano in una istituzionalizzazione perenne, spostati da un posto all’altro. C’è sempre un’autorità che si chiede “ora questo dove lo metto?” e tende a chiedere più posti e più Rems. Invece bisognerebbe immaginare percorsi, che era poi l’auspicio della legge 81».

La manicomializzazione delle carceri

Se un soggetto – mentre sconta la pena all’interno di un istituto carcerario comune (o durante un procedimento, in misura cautelare) – incorre in un disturbo di tipo psichiatrico che incide sulla sua capacità di intendere e volere, viene spedito nell’articolazione psichiatrica del carcere. Sono “reparti di osservazione”; nei quali il detenuto non può essere recluso oltre 30 giorni. Uno di questi era il reparto Sestante del carcere Le Vallette di Torino: lo hanno definito “il reparto degli orrori”. Un detenuto vi era rimasto per mesi, e per giorni in una cella “liscia”, priva di tutto, dove sarebbe stato costretto a bere dallo scarico del wc. Luigi Romano di Antigone Campania, autore de “La Settimana Santa” (libro che ricostruisce la “mattanza” nel carcere di Santa Maria Capua Vetere) racconta a VD: «Credo che lager come il Sestante, per fortuna, non esistano altrove. Però il caso Sestante è dove possiamo arrivare. Se lasciamo andare questo percorso di trasformazioni dove le logiche manicomiali entrano negli istituti il caso Sestante non resterà un’eccezione ma diventerà un modello».

Romano ricorda che «il sistema penitenziario è sotto stress dagli anni ‘90. In affanno sono le magistrature di sorveglianza, gli uffici di esecuzione penale esterna. In queste strutture gli addetti alla funzione rieducativa trattamentale non esistono, sono pochissimi». Nel carcere napoletano di Poggioreale, ad esempio, sono 14 su oltre 2200 detenuti, sorvegliati da 700 agenti di polizia penitenziaria. «Si ha l’esatta immagine di un carcere militarizzato e contenitivo». Un sistema nel quale, spiega Romano, è sempre più facile per i detenuti cominciare ad avere disturbi di tipo psichiatrico. «Durante il Covid c’è stata l’implosione del sistema. In tv (che i detenuti comuni guardano anche dodici ore al giorno) hanno visto i morti nei carri militari, sono stati bloccati i colloqui, magari hanno avuto un lutto: sono cose che molto spesso ti piegano». E in quel momento si può finire nelle articolazioni come il reparto Sestante.

Le condizioni detentive aggravano la sofferenza psichiatrica

Questi reparti psichiatrici sono totalmente dipendenti dalle Asl, anche se all’interno di istituti carcerari. Spesso, spiega Romano, «la situazione intramuraria è la causa della sofferenza psichiatrica: dal reparto il detenuto torna compensato, poi in cella si scompensa nuovamente, perché magari in quel mese sono arrivati nuovi concellini. Allora il detenuto tenta il suicidio e torna in reparto. Si innesca un ping pong tra cella e articolazione, che non fa altro che peggiorare le condizioni del detenuto». D’altronde, «gli istituti di pena stanno diventando un po’ dei manicomi, dove il disagio sociale viene gestito con vecchie tecniche di contenimento. Le esigenze di cura medica passano per natura in secondo piano rispetto a quelle di natura sociale». La verità, purtroppo, conclude Romano, «è che il carcere è fatto per produrre dolore e non c’è modo di far funzionare quella macchina senza la naturale e ontologica somministrazione di dolore».

Il sovraffollamento disumano del carcere di Manila

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