silvia romano
Io sono Silvia Romano. E sono stata liberata
Silvia Romano, rapita in Kenya a novembre del 2018, è stata finalmente liberata, lo annuncia il premier Giuseppe Conte: «Ringrazio le donne e gli uomini dei nostri servizi di intelligence. Silvia, ti aspettiamo in Italia!». Luigi Di Maio, ministro degli esteri aggiunge: «Volevo darvi una buona notizia. Silvia Romano è libera. Lo Stato non lascia indietro nessuno. Un abbraccio alla sua famiglia. E un grazie alla nostra intelligence, all’Aise in particolare, alla Farnesina e a tutti coloro che ci hanno lavorato» e così anche il Presidente Mattarella: «La notizia della liberazione di Silvia Romano è motivo di grande gioia per tutti gli italiani». Il padre di Silvia, Enzo Romano è visibilmente scosso: «Lasciatemi respirare, devo reggere l’urto. Finché non sento la voce di mia figlia per me non è vero al 100%» dice all'Ansa. «Devo ancora realizzare, mi lasci ricevere la notizia ufficialmente da uno dei mie referenti». Silvia, che «Sta bene. Provata ovviamente dallo stato di prigionia ma sta bene», come dice Raffaele Volpi, presidente del Copasir, sta tornando in Italia e rientrerà domenica alle 14 a Fiumicino. Era tenuta prigioniera a pochi chilometri da Mogadiscio: «Sono stata forte e ho resistito. Sto bene e non vedo l'ora di ritornare in Italia». Di seguito vi lasciamo il nostro pezzo su Silvia, scritto, l'anno scorso, per noi da un'altra volontaria come lei ed ancora emozionante, soprattutto oggi.
Io sono Silvia Romano
Mi chiamo Silvia Romano e oggi sono solo una voce. Una voce tenue che si insinua, a volte, nella normalità del quotidiano, irrompendo tra i pensieri, toccando spesso l’immaginario remoto delle persone; una voce che ogni tanto fa capolino tra qualche titolo di giornale, passando dalla prima all’ultima pagina, diventando pian piano più bassa, fino a scomparire, per poi ritornare ancora come articolo scritto o come audio whatsapp.
Ma dove sono adesso? È tutto buio. Forse da nessuna parte, eppure dappertutto. Nei ricordi dei miei cari, nelle idee di chi pensa, come me, che la vita abbia un senso solo se dai, se agisci, se credi nell’umanità. Sono la voce di una ragazza come tutte le altre: di Milano, 23 anni, laureata con una tesi sulla tratta degli esseri umani. Sono partita con la ONG Africa Milele per il Kenya, dove avevo già vissuto alcuni mesi, lavorando come volontaria con i bambini. Il destino, però, mi ha riservato una prova di vita enorme: mi hanno rapita la sera del 20 novembre del 2018, mentre ero al mercato.
Insultano Silvia sul web per il suo altruismo
E da quel momento, oltre a diventare più forte nel cuore di chi mi ama o nei pensieri di chi si rispecchia in me, mi hanno cucito addosso una colpa, quella di aver seguito un ideale forse troppo scomodo nella società attuale. Paradossale, vero? Pensare che la mia voglia di dare una mano, laddove le mani sono ancora troppo poche, venga denigrato, come se me la fossi andata a cercare invece di starmene tranquilla a casa mia. Da dove vengo, io? Dove sono le mie radici se il mio paese non mi sostiene ora che ne ho più bisogno? Dove sono le voci di chi mi può far diventare un grido unanime, potente, liberatorio?
Negli ultimi giorni la mia vicenda ha preso una piega diversa, a tratti inquietante. La mia voce ha parlato di un caso di pedofilia che coinvolge un pastore anglicano in Kenya. Forse ho parlato troppo, ho visto troppo. Forse sono una persona scomoda per qualcuno, fastidiosa per altri. Ero dove qualcuno non voleva che fossi.
Il rapimento di Silvia forse è legato a un caso di pedofilia
Domande sulla mia vita che rimbombano come un’eco silenziosa, che non si dovrebbero fare, ma che tutti osano porsi, come se avessero il diritto di stabilire se le mie scelte siano state giuste. La lingua batte forte sul tamburo, diceva qualcuno. E certe parole mi costringono ancor più nel silenzio, mi cancellano, mi fanno diventare un giudizio. Eppure mi ricordo dei sorrisi dei bambini che ho tenuto in braccio e la loro risposta alla vita di stenti che conducono e quello mi fa sentire sicura di me, del lavoro che ho fatto e della mia libertà.
Mi chiamo Serena ed anche io sono solo una voce. Ricordo il primo giorno in cui ho messo piede in Nepal, la polvere delle macerie ancora in giro, le vesti colorate delle persone, le montagne innevate. Ho dato da mangiare a neonati di pochi mesi abbandonati in un orfanotrofio di Katmandu. Avevano i pannolini di pezza bagnati ed erano ricoperti di mosche da capo a piedi, soprattutto nelle giornate in cui faceva molto caldo. Li ho cambiati. Li ho fatti giocare. Ho interagito, nonostante non mi comprendessero, nonostante facessero fatica a capire l’inglese. Ma quando arrivavo al mattino, mi correvano incontro come se fossi il gioco più bello mai avuto. E questa sensazione è ciò che di più simile al concetto di libertà abbia mai sperimentato nella vita.
Il volontariato dona libertà e felicità
Io sono Serena ma sono anche Silvia. Siamo solo voci. Voci che hanno bisogno di continuare a parlare, a raccontare e a credere che, nonostante tutto, la libertà di scegliere la nostra strada sia imprescindibile e vada tutelata dall’ondata di critiche dei social media, di chi crede che fare volontariato sia una smania o un capriccio e non un’attitudine irrefrenabile.
Io sono Silvia e adesso sono solo una voce, quella che userai per parlare di me agli altri: «Amo piangere commuovendomi per emozioni forti, sia belle sia brutte, ma soprattutto amo reagire alle avversità. Amo stringere i denti ed essere una testa più dura della durezza della vita. Amo con profonda gratitudine l’aver avuto l’opportunità di vivere» (Silvia Romano).
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