scuola italiana
La scuola riapre ma ne restano solo macerie
Carta igienica mancante, lavagne obsolete e banchini sfondati: per fortuna alla scuola italiana è rimasta la campanella. Devastata da decenni di riforme e controriforme sulla pelle di studenti e docenti, ormai il sistema dell’istruzione si regge su calcinacci fisici e virtuali.
E mentre slittano di un anno le trentatré ore di educazione civica, la creatura gialloverde presentata come unico rimedio ai mali che affliggono la nostra società, gli alunni e gli insegnanti tornano in classe sperando che il soffitto regga almeno fino a giugno. Di occasioni perse è segnata tutta la storia della scuola italiana degli ultimi anni.
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Come la possibilità di offrire stipendi che vadano di pari passo con la responsabilità che ci si assume nel momento in cui si decide di fare l’insegnante, speranza sfumata anche a questa tornata elettorale che aveva promesso di mettere una toppa ai danni della “buona scuola” renziana. Intanto, secondo l’Ocse, i nostri docenti continuano a essere i meno pagati d’Europa, i più precari e i più bistrattati.
Che altro aspettarci da un Paese che per l’istruzione spende poco e male? Al massimo uno striminzito contentino di 500 euro o poco più per chi fa scuola, che dovrebbe restare in vigore anche per tutto il prossimo anno, stando all’ultima legge di bilancio. D’altronde c’è da stare poco allegri se annualmente per il settore istruzione spendiamo in media solo il 3,9% del Pil, contro il 4,7% della media europea e 12% di quello tedesco. Fotografia di un Paese non intenzionato a investire nella formazione dei propri cittadini, perché tanto con la cultura mica si può mangiare.
Le nozioni per creare una coscienza critica marciscono perché inutili in un sistema regolato dalle leggi di mercato: nascono morte diceva Pasolini
Un mantra che si ripete dall’era Gelmini, diventato slogan ufficiale della cosiddetta managerializzazione della scuola che ha decretato il quantitativo di soldi da destinare a ogni ateneo in base alla qualità della gestione, la fine dei finanziamenti a pioggia, sforbiciate al personale e al numero di istituti in nome di una tanto presunta quanto aleatoria meritocratica modernità, mentre i programmi rimanevano pressappoco gli stessi, a parte l’introduzione obbligatoria di una lingua straniera e il potenziamento dell’insegnamento delle materie scientifiche.
È stata poi la volta della cattiva “buona scuola” renziana, vero e proprio specchietto per le allodole, che puntava a fornire gli strumenti per il raggiungimento di un’autonomia scolastica e il miglioramento dell’offerta formativa, che paradossalmente si è concretizzata in un minor numero di ore scolastiche e con un taglio alle sperimentazioni nei licei e negli istituti tecnici.
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Con la "buona scuola" si è anche portato alle estreme conseguenze quel processo di managerializzazione voluto dalla riforma Gelmini, con l’entrata dei privati e associazioni nelle scuole attraverso il famoso ‘school bonus’, ovvero attraverso donazioni fino a 100mila euro, staccandosi così dal principio di unitarietà del sistema scolastico.
Ma il punto più discusso della legge è la cosiddetta alternanza scuola-lavoro, che si è trasformato da mezzo che ipoteticamente avrebbe dovuto rappresentare una sorta di cassetta degli attrezzi in preparazione al mondo del lavoro in una macchina elefantiaca retta esclusivamente sullo sfruttamento dei più giovani.
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E così, nel silenzio generale, le nozioni, quelle utili per creare una coscienza critica marciscono perché inutili in un sistema regolato dalle leggi di mercato: nascono morte, non avendo futuro, diceva Pasolini. La scuola, quindi, è forse il più grande fallimento italiano.
Il settore dell’istruzione ha ignorato la sua vocazione culturale per adattarsi a un mondo del lavoro talmente fluido da rendere fallimentare qualsiasi proposta politica che sposti l’ago della bussola verso la parola “modernità”. Il rischio è di creare legioni di possibili lavoratori più simili a robot che a essere senzienti. Già, per fortuna è rimasta almeno la campanella.