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Non riuscirò mai a capire l’entusiasmo per David Foster Wallace
Di solito nella vita i grandi libri, i dischi o film, ci vengono consigliati da un amico. Io con David Foster Wallace ho due ricordi nitidi legati agli amici. Uno che lancia Infinite Jest nel muro in piena notte dopo dieci pagine esclamando: «mavaffanculo!» e l’altro che mi dice: «Sono circa a metà di "Infinite Jest", lo sto leggendo da dodici anni».
Per parlare a fondo di uno scrittore esiste un solo approccio: recuperare tutta la sua opera e leggerla. Niente critica, niente, saggi (almeno all’inizio), solo lasciar scorrere le pagine una dopo l’altra. Io che scrivo questo pezzo faccio ammenda: non ce l’ho mai fatta ad affrontare “davvero” DFW. Affascinato dalla sua iconica immagine con la bandana, dal suo metro e novanta per novanta chili, dalla sua leggenda e dalla sua scaltrezza, l’ho prima introiettato dentro di me mitizzandolo e solo dopo sono arrivato alle sue pagine scritte. La sua prosa romanzesca che è un fiume in piena e una firma stilistica, la sua arguzia, il suo pensiero analitico che lo rendono quel che è sono stati il deterrente. Infinite Jest e La scopa del sistema, i suoi romanzi, non li ho mai finiti.
La mia difficoltà nel leggere David Foster Wallace
Iperdescrittivo, cerebrale, totalmente privo del dono della sintesi, Wallace è uno scrittore difficile: richiede lentezza, dedizione e voglia di farsi sedurre. Soprattutto richiede tanta voglia di sentire qualcuno parlare. Posso affrontare scrittori prolissi come King, Ellroy, Tolkien ma a patto che “raccontino”. Wallace di solito descrive. Questa è la critica che gli muoverei: più che raccontare sembra sempre e solo parlare. Nelle decine di pagine in cui ti affoga con le descrizioni arrivano poi degli squarci di luce che sono le sue intuizioni, delle riflessioni profonde, ma anche lì: ingodibili poiché affondate tra centinaia di migliaia di parole.
È come fare sesso e non arrivare mai all’orgasmo, solo vicino. Una tortura. Dietro lo scrittore c’è un uomo e l’uomo è fragile, scosso da attacchi di ansia e panico, depressione e senso di inadeguatezza fin da bambino. Intelligentissimo, forse sopra la media, ha sofferto in vita come quasi tutte le grandi menti.
Nonostante il successo inaspettato del suo primo romanzo, piomba in un vuoto creativo che lo rende incapace di godersi il momento, la cattedra di filosofia quando solo pochi anni prima guidava un autobus per i suoi futuri allievi e viveva con i suoi. Nella sua scrittura logorroica il dolore si fa spazio a falcate, per alcuni lettori questa è una calamita, per altri un arrivederci immediato. Mark Costello, suo amico intimo, dice: «I sintomi erano praticamente sempre gli stessi: questo incredibile senso di inadeguatezza, il panico. Una volta mi disse che voleva scrivere per mettere a tacere il brusio nella sua testa. Diceva che quando scrivi bene riesci a stabilire una voce nella tua mente che mette a tacere tutte le altre, quelle che dicono: “Non sei abbastanza bravo, sei un impostore”». [nota dell’editor Alessandra: una sindrome di cui parla in uno dei suoi racconti più belli nella raccolta "Oblio", pubblicata nel 2004]
La celebrità dopo il suicidio
Eccoci quindi al vero problema: confrontarsi con Wallace significa confrontarsi con un fantasma; ancora di più farlo oggi, nel giorno in cui compierebbe sessant’anni. Scegliendo di impiccarsi a 46 anni nella sua casa in California, all’apice di una carriera di successi, Wallace ha abbandonato la scrittura, anzi forse il dialogo, rinunciando a tutto. Così facendo è entrato di diritto nella teca dei grandi, dei nomi sacri.
Da quel momento in poi il suo sacrificio estremo ha cancellato ogni lucidità di giudizio nei suoi confronti e non a caso sua moglie ha dichiarato in un’intervista: «Il suicidio di David lo ha trasformato in quel tipo di celebrità letteraria che lo avrebbe fatto rabbrividire».
Sarebbe stato bellissimo vederlo alle prese con i social network (pensate solamente al suo contemporaneo/rivale Bret Easton Ellis che imperversa su Twitter), sentirlo esporsi su temi della contemporaneità. Il Wallace saggista è infatti quello più brillante e godibile. Sono preziosi i suoi Una cosa divertente che non farò mai più o Il rap spiegato ai bianchi. Forse non è un azzardo dire che Wallace se ne è andato all’inizio del declino della scrittura, arte che pare ormai messa all’angolo dall’immagine (i social, la comunicazione, l’espressività adesso sembrano tutti incanalati nella rappresentazione fotografica e filmica). Focalizziamoci quindi sui ricordi per visualizzare l’uomo.
L'uomo David Foster Wallace
«Promosso per tutte le superiori con il massimo dei voti, ha giocato a football, ha giocato a tennis, ha scritto una tesi in filosofia e un romanzo ancora prima di laurearsi ad Amherst, ha seguito un corso di specializzazione in scrittura creativa, ha pubblicato il romanzo, ha fatto sì che una città intera di editor e scrittori bercianti, sgomitanti e pronti a gambizzare chiunque si innamorasse di lui perdutamente. Ha pubblicato un romanzo di mille pagine, ha ricevuto l’unico premio del paese che si assegna a chi viene riconosciuto un genio, ha scritto articoli che restituiscono meglio di qualunque altra cosa la sensazione di ciò che significa essere vivi al giorno d’oggi, ha accettato una cattedra speciale di scrittura creativa presso un’università californiana, si è sposato, ha pubblicato un altro libro e si è impiccato all’età di quarantasei anni». ("Come diventare se stessi", David Lipsky, Minimum Fax).
Quello che colpisce è che uno scrittore così raffinato, così filosofico, abbia avuto un successo enorme di pubblico. Doveva essere un prodotto per i critici, invece è diventato un prodotto popolare. Altra citazione non casuale, quella di Harold Bloom, il più autorevole critico americano: «Non riuscirò mai a capire l’entusiasmo per David Foster Wallace e Jonathan Franzen» (la Repubblica). Non piace molto agli accademici quindi, ma Wallace racconta una generazione di problematici, irrisolti, incasinatissimi umani. Noi. Il consiglio con lui è: avvicinatevi alla sua opera. Non importa che vi piaccia o meno, fatelo solo per conoscere un mostro sacro della dialettica. Fatelo per avere una testimonianza di un’epoca che non c’è più.
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