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Netflix è pieno di serie tv spagnole. Spesso da evitare
Se nei primi anni Duemila il predominio in tv e in sala era tutto anglofono, nell’ultimo decennio il quadro è diventato (fortunatamente) più composito: non solo cinema d’autore, però, da relegare ai circuiti più raffinati, ma anche tanta serialità di largo consumo; una serialità in grado di strizzare l’occhio a Netflix e al suo modo di intendere il pop. Con una tigna sorprendente quanto irritante (come un gol all’ultimo minuto della squadra avversaria) la Spagna è riuscita a cavalcare questo trend. Ma siamo sicuri che gli spagnoli sappiano quello che fanno?
Dalle soap opera ad Almodovar
Facciamo un passo indietro e torniamo a quando la Spagna era famosa per il suo prodotto intellettualmente più onesto: le telenovelas. Cuore Selvaggio, l’Ambasciata e Il segreto sono alcune delle opere che hanno allietato i pomeriggi di chi scrive. La ripetitività degli intrecci, le mascelle solide degli attori, le passioni dei personaggi principali assicuravano un divertimento perenne. Gli amori non erano mai scalfiti né da un dubbio né da una tavoletta del water alzata, come i romanzi d’appendice ci hanno insegnato e come dovrebbe essere anche nella vita reale (ma il mondo, si sa, è un posto ingiusto).
C’era, è vero, anche un altro tipo di audiovisivo: quello più autoriale, ma in fondo altrettanto caciarone, di Almodovar e di altri registi di Cinema (la maiuscola è puramente convenzionale). Con Tutto su mia madre, Almodovar era riuscito a ripulirsi e a piacere all’Academy vincendo un Oscar per il miglior film straniero; Alex de la Iglesia continuava a plasmare il suo immaginario, un po’ sinistro e un po’ ironico; Alejandro Amenabar girava i suoi thriller cazzuti. Nessuno fingeva di essere qualcosa che non era.
La casa di carta e il decollo
Legittimamente, anche ai cugini spagnoli piace fatturare, così Netflix Spagna ha adottato subito l’estetica patinata della casa base. Il successo è stato notevole a livello di pubblico, altalenante su quello artistico - l’aggettivo è datato, ma ci siamo intesi. La casa di carta è tra le serie Tv più viste di tutti i tempi, e di primo acchito c’è da chiedersi perché non dovrebbe. L’idea c’è, qualche personaggio buca lo schermo (Berlino su tutti). La trovata delle maschere di Dalì riassume bene l’anima commerciale della Serie Tv: Dalì è un personaggio mainstream ma non banale, ed è questo connubio che Netflix vuole padroneggiare.
Ecco perché, dopo il successo della prima stagione, Netflix ne ha acquistato i diritti e si è affrettato a produrne una seconda, una terza e una quarta. Spogliando la serie della sua patina dark, però, ci si accorge che non è tutto oro quello che brilla. In fondo, anche i personaggi de La casa di carta sono burattini governati da narrazioni ripetitive e amorazzi rodati. Gravidanze vecchie e nuove, passioni destinate a spegnersi nel proprio trionfo, legami familiari tormentati: a dispetto delle confezione, siamo ancora in zona soap opera. Pensavo fosse thriller, invece era un calesse.
La distanza tra Elite e Il buco
Con Elite non va meglio, anzi. Qui l’involucro oscuro e algido è ancora più evidente. Nonostante la giovane età, quasi tutti i personaggi sono cattivi; in più, hanno la paresi e non sorridono mai. E allora perché - se hai scelto queste premesse - tu sceneggiatore devi capitombolare nello stereotipo del personaggio passionale e testa calda (Nano Dominguez)? Perché devi tirar fuori l’HIV? Almodovar l’aveva già sdoganato un quarto di secolo fa, in modo più complesso e ironico. Insomma, in modo più moderno. Adesso tutti vanno matti per Il buco, un film che si sforza disperatamente di dire qualcosa di nuovo rimettendo in campo il rapporto alto-basso in una prigione (ed è subito il racconto Sette Piani di Buzzati, per citarne solo uno).
Il buco, dicevamo, vorrebbe dire qualcosa di nuovo ma non è convinto di farcela, e quindi decide di puntare sul pecoreccio, sugli istinti più bassi dei carcerati, con un grande spreco di scene sanguinolente. Ancora una volta l’impressione è quella di una produzione che si forza su un terreno che non gli appartiene, solo perché “fa figo”. Più felici sono i risultati quando Netflix Spagna prova a ripartire da narrazioni più quotidiane e calibrate, facendo ciò che davvero conta: scavare nei personaggi. Penso soprattutto alla comicità di Paquita Salas, nata come webserie e molto meno spensierata di quanto appaia a prima vista. Ci auguriamo che Netflix Spagna possa continuare su questa strada, anche a costo di scontentare un po’ i propri fan. Intanto, continueremo ad arrovellarci sulle radici del successo de La casa di carta, non senza un pizzico di invidia: perché le loro sòle sì e le nostre sòle (Baby) no? Solo il tempo svelerà il mistero.
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