working holiday visa
L'Australia non è più la terra promessa per gli italiani?
La storia dell’emigrazione italiana in Australia è antica almeno quanto quella del settimo continente: quando, nel 1770, James Cook approdò nella terra dei canguri, tra i membri del suo equipaggio erano presenti anche due marinai italiani, che rappresentarono il nucleo embrionale della diaspora.
La prima comunità nostrana vera e propria si formò, però, nel 1891, quando il governo coloniale del Queensland sollecitò il primo esperimento di immigrazione italiana assistita: circa trecento lavoratori agricoli, tutti provenienti dal Piemonte, partirono per lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero.
Tra i membri dell’equipaggio di James Cook erano presenti anche due marinai italiani
Dal secondo dopoguerra in poi, il numero di emigranti italiani in Australia crebbe in maniera esponenziale: le notizie di quei compaesani che, una volta raggiunto il Commonwealth, “ce l’avevano fatta” cominciarono a diffondersi a macchia d’olio, alimentando sempre di più quel “mito australiano” ben sintetizzato dal film di Luigi Zampa Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata (1971), interpretato da un superbo Alberto Sordi.
L’Australia è diventata, così, una sorta di dreamland per un gran numero di famiglie in cerca di fortuna, di imprenditori incuriositi dalle dinamiche di un’economia in costante crescita e di “cervelli in fuga” attratti da un Paese che, percepito come realmente meritocratico, avrebbe finalmente reso giustizia al loro know how, a differenza di quanto avveniva in Italia. Oggi, quel “sogno australiano” che, per anni, ha sublimato l’immaginario di migliaia di italiani sembra essersi trasformato in un incubo. Tra procedure d’ingresso iper-restrittive e percorsi di ambientamento ai limiti dell’umana tollerabilità, l’Australia sta gradualmente perdendo il suo status di terra promessa.
Nel 1981, il Queensland sollecitò il primo esperimento di immigrazione italiana assistita
Tra procedure d’ingresso iper-restrittive e percorsi di ambientamento ai limiti dell’umana tollerabilità, l’Australia sta gradualmente perdendo il suo status di terra promessa. Ogni anno, migliaia di italiani backpakckers al di sotto dei trentuno anni atterrano presso gli aeroporti di Melbourne, Sidney e Canberra provvisti del Working Holiday Visa, il visto d’ingresso più semplice da ottenere, che consente di rimanere in Australia per un anno. Può essere richiesto una sola volta nella vita e, per ottenerne il rinnovo, è indispensabile intraprendere un periodo di lavoro della durata di 88 giorni presso una delle cosiddette farm.
Progettata per assicurare una sufficiente manodopera stagionale agli agricoltori, la “regola degli 88 giorni” richiede che i nuovi arrivati impieghino il loro tempo nelle aree regionali designate, raccogliendo e confezionando arance, lavorando in miniera, mungendo mucche o svolgendo altri lavori del settore primario. Se tanti australiani possono acquistare frutta, verdura e latte a buon mercato, dunque, il merito è soprattutto del lavoro di migliaia di backpackers in cerca di fortuna.
Per ottenere il rinnovo del visto in Australia, è necessario lavorare 88 giorni in una farm
Nel maggio del 2018, un’inchiesta di The Guardian ha messo in luce volto più scomodo delle farms, evidenziando situazioni di sfruttamento, molestie e salari miseri, fotografando una realtà ben diversa da quella espressa da quel fair go sbandierato dagli australiani come motto nazionale. L’inchiesta ha preso le mosse dai fatti del novembre del 2017, quando un backpacker belga ventisettenne, Olivier Caramin è morto mentre raccoglieva zucche in una farm di Ayr, nel Queensland.
Per quanto riguarda l’Italia, nel 2015, la Fondazione Migrantes ha distribuito il video-reportage 88 days nelle farm australiane, realizzato da Michele Grigoletti e Silvia Pianelli insieme al regista Matteo Maffesanti. Il documentario raccoglie le testimonianze di diversi backpackers italiani: a fronte dei pareri di tanti giovani soddisfatti del loro periodo di “incubazione istituzionale” nelle farms, che hanno reputato positiva la loro esperienza di lavoro nelle fattorie, fanno amaro riscontro le deposizioni di tanti “ragazzi con lo zaino” per i quali gli 88 giorni di lavoro strumentali al rinnovo del visto hanno rappresentato un vero e proprio incubo, caratterizzato da condizioni igieniche pessime, ritmi di lavoro logoranti e retribuzioni bassissime.
Il sogno australiano si è trasformato per tanti italiani in un vero e proprio incubo
Diverse testate italiane, dopo aver intervistato alcuni backpackers di ritorno, hanno utilizzato parole durissime per riferirsi alla realtà delle farms australiane, giungendo a parlare di “inferno” e di “schiavismo”.
La realtà sta nel mezzo: generalizzare una realtà così complessa può essere fuorviante. Il malcostume certificato di diversi farmers non può e non deve essere considerato un tratto costitutivo dell’intera categoria. La sensazione, però, è che neppure il fair to go australiano sia impermeabile a certi tipi di cortocircuiti; e che la manodopera a basso prezzo, alla fine, faccia gola un po’ a chiunque.