lavoro
Si può essere licenziati per i social network?
A chi di voi è capitato di compilare il curriculum scrivendo solo informazioni veritiere? Come ad esempio che amate il contatto con il pubblico, mentre in realtà il lavoro in mezzo alla gente vi terrorizza o semplicemente non vi piace? Quante volte avete dovuto scrivere “ottime attitudini relazionali”, o “grande predisposizione al problem solving”, ma il vostro lavoro ideale si svolge in solitudine e non avete la benché minima idea che cosa significhi davvero problem solving? Tutto questo accade perché nel mercato del lavoro, così come lo conosciamo da almeno una decina d’anni, la competizione è alta.
Tutti vogliono un posto e, dal momento che le offerte sono poche, è probabile che molti vorranno quello su cui hai messo gli occhi tu. Quindi il tuo curriculum dovrà essere impeccabile, addirittura sottoposto alle cure di un’agenzia specializzata che valuterà, revisionerà e approverà anche il tuo speech al colloquio. Niente può essere lasciato al caso, quando in ballo c’è la stabilità economica.
Il curriculum dovrà essere impeccabile come il tuo profilo su Facebook, Twitter e Instagram
È davvero giusto dover mentire, o quantomeno distorcere la realtà, quando parliamo di noi stessi a un datore di lavoro, in modo da renderci più appetibili? Più che giusto o sbagliato, è comprensibile ed è figlio dei tempi: tempi in cui non importa chi sei e cosa vuoi davvero, importa che cosa sai fare e in che modo il tuo apporto può far crescere l’introito dell’azienda che ti assumerà.
Ed è tanto più comprensibile se pensiamo al ruolo che hanno i social network in questo mascheramento che attuano tanti giovani disoccupati. Perché se il pro dei social è che ci danno la possibilità di promuovere pubblicamente noi stessi con un’accuratezza quasi scientifica, il contro è che basta un passo falso e siamo rovinati.
Il licenziamento disciplinare è strettamente legato ai pro e contro dei social network
Lo sanno le migliaia di persone che hanno subito il licenziamento a causa di un post condiviso sulla propria bacheca: al giorno d’oggi il datore di lavoro non ci scannerizza più solamente durate il colloquio, la sua indagine su di noi continua per tutta la nostra carriera lavorativa. Tutto quello che posterai sui social potrà essere usato contro di te in tribunale. Non solo se condividi contenuti che vanno contro la legge, subendo il giusto licenziamento disciplinare: basta un semplice post di carattere politico che non rispetta la linea del tuo brand, un meme, una foto in costume in vacanza e sei fregato.
Negli Stati Uniti, una ragazza ha vinto la causa contro l’azienda che ha condiviso sul suo profilo Instagram una foto di lei in bikini, corredandola di avvertimento: non candidatevi se avete foto del genere. Sintomo, questo, del bigottismo imperante che ancora infesta la nostra società del lavoro, nonostante l’apparente liberazione data anche dalla rete.
I social network ci rendono liberi di essere chi vogliamo e al contempo ci incatenano per sempre a cosa postiamo
Viviamo dunque un paradosso incredibile: da una parte la rete ci dà la possibilità di essere chi vogliamo, o semplicemente noi stessi, soddisfacendo il nostro desiderio di espressione, così ostinatamente soffocato dalla società. Dall’altra, rivelare la nostra natura potrebbe portarci a essere ancora più isolati.
Il mondo del lavoro sembra spingerci sempre più verso la versione digitale di noi stessi: molte aziende non considerano candidati che non hanno almeno un migliaio di contatti su Linkedin e gli altri social, Instagram, Facebook e Twitter, come se dovessimo diventare tutti influencer.
Facebook, Linkedin, Instagram e Twitter definiscono la nostra condotta nella vita e, quindi, sul lavoro
Dall’altra parte, però, incombe il fantasma della tratta dei nostri dati personali, che vengono scambiati tra aziende per trarne più profitto possibile, trasformandoci in cavie da laboratorio a cui viene chiesto solo di consumare e produrre. C’è bisogno di definire una netiquette che porti l’utente dei social a sentirsi protetto nella condivisione dei contenuti, anche in funzione della conservazione di un sano rapporto di lavoro. D’altro canto, la legge dovrebbe schierarsi in difesa dei lavoratori, riconoscendo il diritto a una sana libertà d’espressione. Dovremmo imparare che non viviamo in funzione del lavoro e dei social. Semmai il contrario.