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Se l'estrema destra diventa un brand

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Dimenticate gli anfibi, i giubbotti di pelle e le svastiche tatuate all'American History X: i giovani camerati del terzo millennio vestono casual, hanno facce pulite, organizzano collette alimentari, ma dopo la scuola si danno alle MMA. Il loro brand di riferimento? Si chiama Pivert ed è stato lanciato da Francesco Polacchi, fondatore di Blocco Studentesco, movimento apertamente fascista e proiezione di CasaPound all’interno delle scuole superiori e delle università. Militante e attivista del partito della tartaruga ottagonale, con un turbolento passato giudiziario alle spalle, Polacchi è anche editore di Primato Nazionale, testata giornalistica sovranista, e della casa editrice Altaforte, che gli è costata l’apertura di un procedimento penale per apologia del fascismo.

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Vestiti casual, facce pulite, organizzano collette alimentari e sono appassionati di MMA, i camerati del terzo millennio hanno cambiato divisa

E così l’estrema destra, data per estinta fino a qualche anno fa, si reinventa attraverso la codifica di un nuovo linguaggio con cui approcciarsi ai giovani, mescolando attivismo politico alla promozione di capi d’abbigliamento fintamente innocui e quasi anonimi. L’importante è sfornare un prodotto di tendenza in cui potersi riconoscere e ‘fare gruppo’ contro un nemico dai contorni indefiniti, che obbliga a non abbassare mai la guardia, a essere sempre pronti all’attacco, scimmiottando le pose dei modelli che pubblicizzano il marchio. Il brand si serve dei tipici meccanismi adolescenziali per sdoganare gli ultimi conati ideologici del fascismo, attribuendo però il merito del successo di Pivert tra i giovani militanti di CasaPound a una spontanea scelta di mercato e non a una studiata azione di targettizzazione.

Il fascismo brandizzato non si accorge di essere il figlio legittimo della società liquida
Il fascismo brandizzato non si accorge di essere il figlio legittimo della società liquida

Quella di Polacchi è infatti solo «un’attività economica, frutto di una personale iniziativa imprenditoriale», in cui «la politica non c’entra». Guai, quindi, ad associare Pivert e fascismo. Peccato che le bugie abbiano le gambe corte, soprattutto nell’era di Facebook. I cuoricini neri accostati al brand da parte del fondatore dell’azienda e i richiami alle camicie nere smentiscono l’idilliaca versione fornita da Polacchi. Tanto che gli utenti si sentono liberi di commentare sotto ai post di Pivert con il saluto romano, sicuri di non incorrere nel ban.

I giovani italiani sono i più schierati a destra di tutta Europa

Alla pagina Facebook dell’azienda è collegato anche il gruppo Pivert people, che nasce per «proporre le novità del brand e per creare una community» e di cui Polacchi è amministratore. Qui l’hashtag #fascism accompagna le foto postate direttamente dai gestori degli store sparsi in tutta Italia. Nella foto del profilo della maggioranza dei membri campeggia la tartaruga nera e chi entra nel gruppo ringrazia citando i motti fascisti. I post promozionali pubblicati dall’azienda cedono il terreno alle discussioni a senso unico su sovranità monetaria, spread, autarchia e «dittatura dell’Unione Europea».

Sempre in bilico tra appartenenza e marketing, il branding neofascista vende con la nostalgia di un periodo che nessuno dei suoi clienti ha vissuto

«Chi sceglie Pivert sa da che parte stare», scriveva qualche mese fa Polacchi, che non ha mai rinnegato il suo impegno come militante di CasaPound e la sua ammirazione per il ventennio. Ma la «Benetton di destra», convertendo il passato nero in un prodotto da scaldare in forno e condire a piacimento dei più giovani, asseconda proprio quelle logiche di mercato che individua come ostacolo principale al trionfo dell’italianità neofascista. Il ripetitivo richiamo alle proprie radici, al controllo, al ritorno a ruoli ben definiti da parte del brand rappresenta il goffo tentativo di risolvere il conflitto in seno all’estrema destra, che non si accorge di essere la figlia legittima della società liquida. Per ironia della sorte, Pivert è anche il cognome di uno dei più famosi antifascisti francesi. Non proprio una scelta di marketing fortunata per chi, come Polacchi, è convinto che il 25 aprile si festeggi «una sconfitta militare».

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