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Se sai cosa sono gli NFT, è facile diventare artista
Il 14 dicembre un comunicato stampa di Vodafone UK ha annunciato che di lì a qualche giorno l’azienda avrebbe messo all’asta l’NFT del primo SMS mai spedito: un augurio di “Buon Natale” inviato – sulla rete Vodafone – a dicembre del 1992. Il pezzo è stato battuto il 21 da una casa d’aste che non avevo mai sentito nominare (Aguttes). Sul sito risulta venduto per 132.680 € (se la cifra sembra poco ortodossa è perché in realtà è stata pagata in Ether). Non si sa chi, esattamente, si sia aggiudicato l’opera. Il ricavato sarà interamente devoluto all’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR). Se non capite la metà di quello che ho scritto il resto del pezzo è per voi. Adesso, con calma, provo a spiegare tutto e vi prometto che alla fine dell’articolo avrete un’idea abbastanza precisa di come fare a vendere la vostra prima opera d’arte digitale.
Vodafone ha venduto 15 lettere per più di 100mila euro
In realtà, nel caso dell’SMS di Vodafone, è stata venduta proprio un’opera d’arte fisica: una teca in acrilico con dentro due stampe. Da un lato la foto di un vecchio cellulare con l’SMS con scritto “MERRY CHRISTMAS” e dall’altro una seconda stampa che rappresenta il protocollo SMS originale, negli intramontabili caratteri mono-spaced su fondo nero che evocano l’uso emergenziale del terminale per fare operazioni che ci fan sentire hacker e in realtà consistono nel seguire ciecamente istruzioni trovate su stackoverflow in un post del 2013. Scusate la digressione.
Insieme a questa teca di plastica, è stato venduto un NFT dello stesso protocollo SMS. A marzo scorso, era stata battuta all’asta una delle opere più costose del 2021, Everydays: The First 5000 days di Beeple, un collage 100% digitale che con un prezzo di partenza di 100 dollari è stato aggiudicato per 69,3 milioni. Una vendita che ha dato il vero via al mercato degli NFT. E cos’è un NFT? Un NFT o non-fungible token è, per amore di sintesi, un certificato di autenticità digitale che usa la blockchain (generalmente Ethereum, che, come forse avete immaginato, è la tecnologia su cui si basa Ether, la criptovaluta in cui si paga, di nuovo quasi sempre, la criptoarte). L’opera d’arte NFT può essere qualunque ‘oggetto’ digitale: un .jpeg, un .mp3, un .mov, un file di testo e così via. Quello che lo rende un NFT (e che quindi distingue questa foto qui sotto dall’originale opera d’arte) è il suo certificato di autenticità digitale.
Cosa c’entra la blockchain e cosa cambia rispetto all’arte
La blockchain è, di nuovo molto sommariamente, un registro distribuito che scrive e certifica in ordine cronologico una serie di oggetti/attività (transazioni o “record”) attraverso una catena di blocchi non modificabili retroattivamente. Il fatto che sia distribuito significa che nessuna tecnologia basata su blockchain funziona tramite organi centrali di governance (e quindi sarebbe un registro ‘democratico’). Il fatto che sia immodificabile significa che qualunque cosa è tracciata e che qualunque infrazione – qualunque tentativo di modificare gli stati passati della blockchain – la invalida.
Il primo esperimento con questa tecnologia è Bitcoin, una valuta digitale il cui libro mastro di tutte le transazioni è, appunto, una blockchain., La stragrande maggioranza delle opere d’arte digitale si appoggia a Ethereum, perché, al contrario della blockchain di Bitcoin, si può usare sia per formalizzare contratti, sia per custodire/linkare le opere (spesso non residenti sulla blockchain, ma hostate su una rete di servizi tipo IPFS).
Rispetto all’arte chiamiamola “tradizionale” non cambia poi molto fin qui: semplicemente l’autenticità dei pezzi è meno falsificabile e la proprietà più facilmente verificabile. Eppure, in un senso proprio e che all’inizio (per la verità qualche mese fa) non riconoscevo, rispetto all’arte tradizionale cambia tutto. E non sono l’unico a esserne convinto.
Cosa c’è oltre l’hype e tutte le aziende che stanno investendo in NFT
Da quando ho intervistato un amico criptoartista su un’altra rivista ricevo in DM su Instagram almeno 1 messaggio al giorno che mi invita a comprare NFT o a partecipare a imperdibili opportunità d’investimento in progetti di arte digitale. Non li apro mai: come per tutte le bolle, anche questa si sta tirando dietro una quantità di gente che cerca di arricchirsi velocemente e non necessariamente in buona fede. Distinguere gli scam dalla roba vera è difficile, ma l’hype è ovvio anche agli osservatori meno inseriti o attenti.
Ad esempio, l’altro giorno il NY Times ha pubblicato un pezzone sugli executive del Big Tech (Google, Meta, Amazon) che si stanno licenziando per fondare o partecipare a “Crypto startup”, inseguendo quella che l’articolo definisce una “once-in-a-generation opportunity”. Poi, per i più hustler che leggono c’è uno dei seimila speech fatti per essere memati di Gary Vee (qualunque di questi va bene, ma se volete andare dritti a dove dice che in futuro tutti saranno proprietari di “multiple digital objects” è qui). Nike ha rilevato RTFKF (per una cifra undisclosed, ma probabilmente superiore ai 30 milioni di dollari). RTFKF è uno studio che crea oggetti digitali - e in particolare sneaker - per il metaverso.
Adidas ha lanciato – con qualche difficoltà – una collaborazione con Bored Ape Yacht Club (BAYC per i connoisseur; nel Web3 bisogna navigare un sacco di acronimi) Gmoney e Punks, tre collettivi di criptoartisti. Ero nel server Discord per lurkare e tutto quello che poteva andare storto è andato storto. Ma è stato un passo importante: hanno ‘mintato’ (cioè sono stati creati digitalmente) 30mila pezzi, incassando in poche ore 23 milioni di dollari. Senza spendere niente in produzione. Ma inquinando un po’ (il tema delle emissioni legate alle opere mintate su Ethereum è stato caldo per un periodo e ha portato allo sviluppo di blockchain alternative o integrative e più ecologiche tipo Solana o Polygon).
Lo stesso rebranding di Facebook in Meta è un ovvio tentativo di pivot della piattaforma verso il metaverso o il Web3, come si chiama un po’ l’enorme e variopinto mondo che orbita intorno a questa nuova forma di proprietà digitale e a quella che sembra una nuova epoca di internet.
Come fare profitto con gli NFT
Questo per dire, di nuovo e se non vi bastava sapere che la foto profilo di Steph Curry su Twitter è un NFT di una scimmia, che C’È HYPE! Saltare a bordo di questa roba e fare il botto adesso è difficile, ma questo non significa che non stiamo davvero assistendo a una fase di rapido sviluppo del futuro di internet. D’altronde la dotcom bubble è esplosa, ma il dotcom è ancora qui. Quello che oltre l’hype rende la criptoarte radicalmente diversa da tutto quello che c’è già stato è il modello di business: chiunque può creare qualunque cosa (e fin qui) e distribuirla tramite outlet completamente aperti (tipo OpenSea) o con qualche forma di gatekeeping diciamo editoriale (tipo Nifty Gateway).
Sui servizi “a curatela” (tipo Nifty, appunto) ogni artista ha il proprio account, ma non è autonomo. Tutto, ad eccezione della creatività, viene gestito dalla piattaforma: dal drop alla distribuzione dei proventi (che non è diretta: quello che gli acquirenti pagano viene raccolto da Nifty e l’artista può decidere se e quando e quanto liquidare sul proprio wallet privato). Sui servizi davvero open (come appunto OpenSea e Rarible) invece non ci sono reali vincoli: basta avere un wallet su cui caricare criptovaluta (e aprire un wallet tipo su Coinbase non è più complicato di “farsi Tinder”) e associarlo al proprio account del servizio. A quel punto si carica l’opera e, se qualcuno se la compra, la criptovaluta in cui è stata acquistata viene versata direttamente nel wallet. Chi si è comprato un pezzo dell’opera (mintandolo, si dice) se lo ritroverà nel proprio, di wallet.
La barriera tecnologica all’accesso è inesistente: fate uno screenshot di questo articolo, caricatelo su OpenSea e siete diventati dei cripto artisti. Poi, anche in questo mercato (sorpresa!), quello che è importante è che ci sia qualcuno che paga per quello che volete vendere. Ci sono vari modi di vendere: edizioni aperte, cioè un numero illimitato di pezzi mintati di una singola opera a prezzo fisso, edizioni limitate, intuitivo, ma anche aste di nature le più varie. Scegliere come vendere le opere è solo una parte di una strategia complessa di costruzione e alimentazione di un’audience che è ugualmente ricettiva e sospettosa (per i motivi di cui sopra, tipo i DM di spam).
Ora, poniamo che siate riusciti a vendere, qui c’è la parte davvero rivoluzionaria: oggi se Sotheby’s batte un pezzo di Banksy non è scontato che qualcosa vada all’artista. Questo perché qualunque proprietario di un’opera d’arte è suo proprietario esclusivo e transazioni da privati a privati non beneficiano in alcun modo il creatore dell’opera (e lasciano invece fee croccanti alle case d’aste). Questi marketplace per arte digitale non funzionano così: ogni transazione dopo la prima dà diritto a royalties all’artista. E in un mercato che, sui pezzi più quotati, ha dei volumi transati anche grossi, gli artisti che funzionano continuano a guadagnare anche senza droppare pezzi nuovi.
Tutte queste transazioni vengono effettuate in criptovaluta: per darvi un riferimento Ether è passato da 132USD circa a dicembre 2019 a 4080USD adesso, mentre scrivo. Oltre al sommarsi delle fee quindi, si somma l’inflazione del valore della valuta. Fate voi i conti se vale la pena provarci. Molta gente sta facendo trading, creando arte o contribuendo al movimento. Questo con il grosso limite (o rischio) che se già non sapevamo niente di mercati valutari, sappiamo ancora meno del mercato della criptoarte.
Un nuovo concetto di proprietà privata?
Non so se sia vero, ma mi piace pensare che questa sia davvero la prima volta nella storia in cui la proprietà privata non può essere concettualizzata come un furto materiale: mintare un’opera significa farla esistere, senza che prima ci fosse niente, senza che crearla escluda nessuno dalla proprietà precedente della stessa cosa, o attuale di qualcosa d’altro. E forse è anche per questo che trovo interessante come alcune delle opere di arte digitale più significative giochino sull’idea di appropriazione creativa (tra tutte, per non far scontento nessuno, quelle del mio amico Dot, che han dentro quadri di altri artisti ridisegnati da lui). Come se finalmente fosse a portata di mano il sogno, dopo anni di lavoro intellettuale non retribuito in cambio del quale potevamo vedere gratuitamente le foto del gatto di nostra zia, di venire pagati per i meme.
Immagine di copertina di Dotpigeon.
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