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L'Europa finisce dove inizia Srebrenica

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L’Europa finisce dove inizia Srebrenica. A oltre venticinque anni dal più grande massacro dopo la Seconda Guerra Mondiale, compiuto dalle milizie serbo-bosniache, i Balcani continuano a essere l’ospite sgradito non solo della nostra memoria ma anche del nostro presente. E così, a sole due ore e mezza da Sarajevo, l’odore della guerra, quello che brucia gli occhi e fa prudere le mani, è ancora lì, in attesa da più di vent’anni.

Il caldo luglio bosniaco

È l’11 luglio del 1995. La guerra nei Balcani va avanti da tre anni, ma Srebrenica, definita “area di sicurezza”, è controllata dai caschi blu olandesi. Un porto sicuro per i civili in fuga, tanto che quell’estate ospita circa 20 mila profughi musulmani. La mattina del 12 luglio il generale serbo bosniaco Ratko Mladic viene ripreso mentre rassicura la popolazione locale. In quel momento i miliziani avevano già cominciato a radunare e trucidare tutti i maschi dai 12 ai 77 anni, che furono separati dalle donne, dai bambini e dagli anziani, in apparenza per essere interrogati. In realtà vennero uccisi e sepolti in fosse comuni mentre i caschi blu che avrebbero dovuto difendere la zona non opposero particolare resistenza e consegnarono la città ai serbi. Non solo. 300 profughi che avevano trovato rifugio all’interno della base furono consegnati direttamente dai caschi blu. Un massacro che sarà definito dai tribunali internazionali “pianificato e coordinato ad alto livello”. Molti dei corpi verranno ritrovati solo a guerra finita. Come quello del marito di A.G., che ancora oggi fatica a parlare di quel caldo luglio bosniaco, quando fu caricata su un autobus e spedita a Kladanj, senza sapere che cosa sarebbe successo ad Ahmed. Il suo cadavere verrà trovato solo anni dopo. «Per arrivare a Srebrenica erano necessarie ore e ore di viaggio», racconta il giornalista Alberto Negri. «Di quella gente colpiva il silenzio. Era difficile raccogliere le testimonianze, perché si trattava di persone che erano state sottoposte a choc tremendi. Si muovevano come delle ombre». Ombre che si portavano dietro il carico di tutti i loro racconti.

Il cortocircuito della memoria

Con Srebrenica e i Balcani non abbiamo ancora fatto i conti. Forse perché la guerra non è ancora finita, con le continue tensioni tra minoranze che si accendono come micce nella notte. Forse perché Srebrenica è un massacro che non finisce mai, con le vittime che ancora non sono state risarcite e la Serbia che continua a pagare un prezzo altissimo di fronte alla comunità internazionale. Forse perché camminando per le strade di Sarajevo gli schizzi di vernice rossa in mezzo al grigio dei marciapiedi ricordano ancora troppo l’odore del sangue. I Balcani si chiedono dove fosse l’Europa in quel caldo luglio di 25 anni fa. L’Europa risponde che era troppo impegnata ad ammassarsi sulle riviere e adesso guarda con paura alla ventata islamista dei bosniaci musulmani, così vicini alle porte di casa. E poi c’è il fattore religioso: più facile dimenticare una strage in nome di un dio cristiano che quelle in nome di Allah, declassandola a incidente di percorso. Eppure nei bar della capitale della Bosnia, serbi e bosniaci non si siedono mai allo stesso tavolo. In fondo, quella dei Balcani non è mai stata una guerra europea: a chiuderla sono stati gli americani, non una schizofrenica Europa, che in politica estera non riusciva, e non riesce ancora, a trovare un indirizzo. Un cortocircuito della memoria il cui peso schiaccia i vivi come i morti.

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