diritti
I diritti negati delle donne afgane. Anche sotto la presenza occidentale
L’Afghanistan delle donne è sulla bocca delle migliaia di profughe in cammino verso l’Europa. Donne come Meena, scappata con i due figli da un marito violento, che racconta la sua storia al fresco degli alberi, in uno dei parchi centrali di Atene. Meena ha diciannove anni e, dice, non ha mai conosciuto la pace e la tranquillità. «In Afghanistan non c’è vita, non c’è speranza», racconta mentre scuote la testa. «Non ho studiato. Vorrei che almeno i miei figli studiassero e che io trovassi la pace e la tranquillità. Mi piacerebbe poi imparare a scrivere, anche se in un’altra lingua. Perché nel mio Paese non c’è futuro. O c’è la guerra, o c’è la fame. O devi vendere i tuoi figli». La parabola dell’emancipazione femminile afgana termina, così, alle porte d’Europa. Ma, in questi ultimi vent’anni, il protagonismo delle donne afgane non è mai mancato. Ed è destinato a far parlare di sé anche sotto il nuovo Emirato.
I diritti negati delle donne afgane (anche sotto la presenza NATO)
Nei vent’anni di presenza occidentale, la condizione femminile in Afghanistan non ha conosciuto grandi rivoluzioni. E quindi, come spiegano Patrizia Fiocchetti ed Enrico Campofreda, autori del libro “L’Afghanistan fuori dall’Afghanistan”, si continua a scappare, soprattutto se si è giovani donne. «Occorre ricordare come nel ventennio di ‘democratizzazione’ la condizione della donna aveva conosciuto limitazioni da parte dei fondamentalisti presenti nelle istituzioni afghane e una falsa emancipazione, poiché leggi e diritti per le donne non trovavano applicazione», spiega a VD Campofreda. «Esisteva una totale discrasia fra il Paese narrato dai media mainstream e la realtà». «Il dissanguamento di un popolo lungo queste rotte deve farci riflettere sui vent’anni dell’occupazione occidentale», dice Fiocchetti. Perché storie come quella di Meena sono fin troppo comuni. Eppure, nel 2001, per legittimare l’operazione Enduring Freedom, si era parlato di lotta al terrorismo e di liberazione delle donne afgane dall’imposizione del burqa.
Era la favola che l’Occidente si era raccontato. «In realtà, la condizione femminile fu condizionata dalle scelte degli occupanti rispetto a come doveva essere condotta la politica post talebana, vale a dire la politica istituzionale», continua Fiocchetti. «Quando nel 2013 intervistai responsabile di Opawc, associazione che si occupa di alfabetizzazione delle donne afgane. Mi disse che, quando arrivarono gli occidentali, le attiviste erano molto speranzose». Durante l’Emirato del mullah Omar, le donne non potevano studiare, né uscire di casa. «Le scuole erano clandestine, i diritti civili ed economici erano sospesi. Le attiviste credevano, quindi, che il miglior esercito al mondo avrebbe spazzato via ‘i combattenti in ciabatte’ e poi dato voce alla società civile e alle forze democratiche. E invece la scelta fu quella di dare il potere politico - e quindi fondi - ai signori della guerra, che appartenevano ai vari gruppi di jihadisti, i mujaheddin, riuniti in parte nell’Alleanza del Nord, in parte nell’Hezb e-Wahdat, il partito filo-sciita. Fu un errore gigantesco».
L’associazionismo femminile e la clandestinità
Se nel 2010, come racconta Patrizia Fiocchetti, le donne di Rawa, Revolutionary Association of the Women of Afghanistan, potevano permettersi di celebrare la giornata internazionale della donna, tre anni dopo, nel 2013, la musica era già cambiata. «Sono state costrette a scendere in clandestinità», spiega. «Erano considerate pericolose dalle autorità. Eppure non hanno mai imbracciato un’arma. Erano pericolose perché facevano un lavoro di educazione ai diritti e di empowerment». Questo nonostante la presenza dei ‘garanti’ occidentali. «L’Afghanistan non è solo le grandi città: è un Paese fortemente rurale. Di conseguenza anche lo sviluppo sociale e della condizione della donna si fa difficile in un contesto del genere. Anche se nelle aree urbane la condizione femminile è migliorata». Ma si trattava di «un gigante dai piedi d’argilla». «La stessa politica istituzionale avversava i diritti delle donne. Non a caso, in questi anni, sono state uccise molte giornaliste e magistrate», dice Fiocchetti.
«La trasformazione di un sistema profondamente patriarcale e tribale è faticosa. Soprattutto se ai vertici dell’esecutivo ci sono uomini che fanno parte di partiti fondamentalisti e che credono fortemente in una società testosteronica. Anche le stesse donne che sedevano in parlamento dipendevano dai signori della guerra». Insomma, il miglioramento della condizione femminile in vent’anni di presenza occidentale è stato molto esiguo e poco fluido. «Sono lacune che le attiviste hanno sempre evidenziato». E adesso, dopo la caduta di Kabul, i talebani promettono di «non vittimizzare le donne» e ruoli nel nuovo governo. «È difficile che l’anima dei talebani sia cambiata così radicalmente». Per le afgane la posta in gioco è altissima. «Il rischio è che parta la caccia a quei movimenti attivi nell’ambito dei diritti, composti in prevalenza da donne. Donne che, però, non sono disposte ad abbandonare il Paese».
Segui VD su Instagram.