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Perché Boris è ancora la migliore serie italiana
Sono passati 9 anni dalla messa in onda sul canale FX di Sky della terza e ultima stagione di Boris, eppure quello scritto e diretto dagli autori Mattia Torre, Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo resta il prodotto seriale per piccolo schermo più efficace, iconico e significativo che l’Italia abbia conosciuto negli ultimi 15 anni. Un vero case-study, che ha coniugato elementi e dinamiche alieni al mondo dell’entertainment italiano, quali libertà di scrittura, satira sferzante e un diffuso senso di anarchia, sorretto da un’autogestione del prodotto televisivo, tradotti poi in qualcosa che, per la generazione dei Millennials - specialmente nella fascia dai 25 ai 40 anni - equivale a quello che la saga di Fantozzi fu per i baby boomers. A distanza di quasi un decennio, lo spaccato sociale proposto da Boris è ancora vivo e attuale, insieme a quel lessico pop e a tratti farsesco che è entrato nell’uso quotidiano per non abbandonarlo più.
Boris è stato, per i Millennials, quello che Fantozzi fu per i baby boomers
Gli stessi volti degli attori protagonisti della “fuori-serie italiana” sono tuttora indissolubilmente associati a un prodotto di nicchia che è riuscito a farsi strada nell’immaginario pop del pubblico italiano in un momento di passaggio: dalla produzione e messa in onda per un canale on-demand di Sky, si è insinuato nelle case di un pubblico generalista grazie allo streaming e al passaparola, diventando il primo caso di prodotto televisivo cross-mediale italiano di successo in un’epoca - dal 2007 al 2011 - in cui Facebook iniziava a diffondersi nei laptop e nei nuovi smartphone italiani.
Una sorta di corto circuito concettuale che ne testimonia, paradossalmente, la modernità: potrebbe esistere oggi una sit-com più fruibile e adatta di Boris, in Italia, per un pubblico mediamente giovane abituato ai prodotti di piattaforme come Netflix o Amazon Prime Video? Sicuramente no. È forse in questa sua duplice natura di serie di nicchia, unicum creativo del panorama dell’intrattenimento italiano, e di fenomeno pop che ha superato le barriere del singolo medium per imporsi su vasta scala ed entrare nel lessico comune che Boris ha generato la sua fortuna che non conosce crepuscolo. E lo ha fatto attraverso i temi di una quotidianità esasperata, figlia di tempi incerti, dominati da cinismo, volgarità e storture croniche tipiche dell’Italia berlusconiana e della crisi economica.
Un paese, filtrato dal microcosmo del set televisivo dell’improbabile soap Gli Occhi del Cuore, che ha mollato ogni velleità di cambiamento o miglioramento collettivo in favore di una quieta rassegnazione al peggio, di un abbraccio potenzialmente letale verso quel “peggior conservatorismo che, però, si tinge di simpatia”, come magistralmente descritto in uno dei monologhi più profetici e riusciti della serie, quello in cui uno sceneggiatore alla ricerca della chiave commerciale da aggiungere alla fiction diretta da René Ferretti, dice:«Serve un qualche cazzo di futuro. Io parlo della ‘locura’, Renè. La pazzia, che cazzo, Renè! La cerveza, la tradizione; o merda - come la chiami tu - ma con una bella spruzzata di pazzia: il peggior conservatorismo che però si tinge di simpatia, di colore, di paillettes. In una parola: Platinette. Perché Platinette ci assolve da tutti i nostri mali, da tutte le nostre malefatte. Sono cattolico, ma sono giovane e vitale perché mi divertono le minchiate del sabato sera. Ci fa sentire la coscienza a posto Platinette. Questa è l'Italia del futuro: un paese di musichette, mentre fuori c'è la morte. È questo che dobbiamo fare noi: Occhi del Cuore sì, ma con le sue tirate contro la droga, contro l’aborto e con una strana, colorata, luccicante frociaggine.»
«Questa è l'Italia del futuro: un paese di musichette, mentre fuori c'è la morte»
Se Boris è nato e si è sviluppato in un’Italia in cui il ruolo di dominus era plasticamente rappresentato dalla figura di Silvio Berlusconi, lontana dalle dinamiche politiche attuali, ha però costruito la sua unicità che perdura nel tempo sul registro del grottesco, necessario ad innescare una satira graffiante, giocata sui cliché delle figure che animano il sottobosco della televisione italiana e, più in generale, del mondo del lavoro: manager qualunquisti e trasformisti, stagisti destinati ad un eterno precariato esistenziale, il regista capace arresosi al modello commerciale dominante per quieto vivere, tecnici beceri, bulli e inconsapevolmente razzisti, autori schiavisti con la tessera di partito in tasca, attori raccomandati ed edonisti privi di ogni forma di talento. È come se, in modo improvviso, il velo che nasconde la galassia della televisione dal mondo esterno fosse stato strappato con un’efferatezza sociologica degna di un horror di Wes Craven per riportare negli occhi degli spettatori un’immagine specchiata aderente alla realtà sociale dell’Italia che viviamo e che, quotidianamente, riesce ancora a stupirci. Spesso in negativo. Esiste qualcosa di più attuale?«Perché un’altra televisione diversa è impossibile. La qualità ci ha rotto il cazzo, viva la merda!»