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Blaxploitation: tra Hollywood e il politicamente corretto

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Da sempre Hollywood fa versioni dello stesso film per bianchi e per neri, ma come ha fatto notare la comunità afro-americana questi favori finiscono spesso col diventare remake all-black di film bianchi. È l’ennesima contraddizione di una Hollywood in cui i pregiudizi razziali nel XXI secolo rimangono anche se le parti si sono rovesciate ma che a contare è soprattutto la posizione sociale ed economica, e la cosa più allarmante è il tasso di conformismo: i neri si compiacciono di essere rappresentati come ricchi borghesi mentre all’uomo bianco viene lasciato il ruolo di conquistatore. Invece senza nulla togliere o saccheggiare alla cultura bianca c’è abbastanza letteratura afro-americana da far pubblicare il loro “Harry Potter” e con le speranze suscitate dall’elezione dell’America post-Obama c’erano buone possibilità di veder realizzati i loro diritti, oltreché vedere i propri orizzonti ampliati anche ad altre minoranze. Alla numerosa comunità afro-americana interessa vedere film classici originariamente pensati e destinati per loro, in cui lo spettatore riesca a consolarsi identificandosi con un eroe che lo rispecchi; folgorante esempio è La Principessa e il Ranocchio (2009) in cui per la prima volta compare un’eroina afro-americana disneyana, prova che la tradizione, le vecchie regole della storia a lieto fine e i buoni sentimenti non sono anacronistici ma apprezzabili anche da un pubblico adulto universale e che non è vero non potersi immedesimare del tutto per un bianco in ruoli romantici neutrali.

Il cinema all-black si arena in soluzioni grossolane, stereotipi e tanto maschilismo

Con l’ex sindaco di Firenze, il Pd ha iniziato a sprizzare cristianesimo sociale da tutti i pori: l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, la (non perfetta) riforma scolastica, la demonizzazione del dialogo con i sindacati e l’andare a braccetto col mondo dell’imprenditoria italiana hanno senza dubbio giocato un ruolo decisivo nell’indirizzare i giovani verso altri lidi.

Il politically correct è un’insincera e comoda trovata di marketing per vendere a un pubblico più ampio

Poi c’è stato il periodo in cui si sono rispolverati film solo perché in perfetta sintonia col trionfo del politically correct: l’America libera dalle discriminazioni razziali. Ma è solo una trovata di marketing insincera per cancellare i sottintesi più scomodi (o ambigui) e rivendere a un target diverso il solito concentrato di stucchevolezze: Uno Sguardo dal Cielo (The Preacher’s Wife, 1996) con Denzel Washington e Whitney Houston remake di La Moglie del Vescovo (The Bishop’s Wife, 1947) con Cary Grant e Loretta Young. E sempre Washington sarà il protagonista di The Manchurian Candidate (Jonathan Demme, 2004), remake del film omonimo del 1962 di John Frankenheimer uscito da noi con il titolo Và e Uccidi. Indovina Chi (GuessWho di Kevin Rodney Sullivan, 2005), remake di Indovina Chi Viene A Cena (Stanley Kramer, 1967), suscitò più polemiche che elogi per meriti filmici. Steel Magnolias (Kenny Leon, 2012) con Queen Latifah, film tv remake di Fiori d’Acciaio (Herbert Ross,1989) che si appoggia alle robuste spalle delle interpreti femminili, ma stride con le dimensioni da soap-opera. Annie – La felicità è contagiosa (Will Gluck, 2014) prodotto, tra gli altri, da Jay-Z e Will Smith remake dell’omonimo film di John Huston del 1982. Pieno di sentimentalismo un tanto al chilo e canzoncine leziose.

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