famiglia
«Se assumere una donna in gravidanza fa notizia, abbiamo un problema»
La storia di Federica Granai, 27enne toscana, lavoratrice e neomamma, viene ribattuta in queste ore da molti giornali. La storia non avrebbe nulla di sensazionale. In Italia, però, suscita dibattito. Federica ha fatto diversi colloqui per un’azienda di telecomunicazioni fiorentina, ed era stata scelta per l’ufficio customer care. A quel punto, però, la giovane lavoratrice ha rivelato all’imprenditore di essere incinta. Lo ha fatto aspettandosi una reazione infastidita, e invece Simone Terreni – questo il nome del titolare dell’azienda – ha accolto con gioia la notizia, confermando l’assunzione. «Spero che non si chieda mai più a una donna, ad un colloquio, se abbia figli o abbia intenzione di farne», ha scritto l’imprenditore sul suo profilo personale.
Avere un figlio per molte donne italiane resta, però, un grande rischio. Dopo il congedo di maternità può arrivare il licenziamento o il mobbing (o semplicemente il mancato rinnovo contrattuale). Quando si resta al lavoro, le scarne politiche sociali - che non offrono supporto alle coppie con figli - alla lunga costringono le donne a dover scegliere tra carriera e famiglia.
I dati italiani: madri al lavoro finché si può
Per tutelare madri e padri la legge italiana (art. 55 del Decreto Legislativo 26 marzo 2001, n. 151) prevede che «la risoluzione consensuale del rapporto o la richiesta di dimissioni presentate dalla lavoratrice durante il periodo di gravidanza e dalla lavoratrice e dal lavoratore durante i primi tre anni di vita del bambino (…) devono essere convalidate dal servizio ispettivo del Ministero del lavoro e delle politiche sociali competente per territorio. A detta convalida è sospensivamente condizionata l’efficacia della risoluzione del rapporto di lavoro». La legge prevede, inoltre, che le lavoratrici non possono essere oggetto di licenziamenti dall'inizio del periodo di gravidanza (300 giorni prima della data presunta del parto) fino al termine del congedo di maternità e fino a 1 anno di età del bambino.
Nel 2020, secondo i dati forniti nella “Relazione annuale sulle convalide delle dimissioni e risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri” dell’Ispettorato del Lavoro, ci sono stati oltre 9 milioni di cessazioni di rapporti di lavoro. Tra questi, 42.377 sono convalide: si tratta di dimissioni o risoluzioni consensuali che riguardano genitori di bambini tra 0 e 3 anni. Ed è interessante notare che, se la maggioranza di cessazioni di rapporti di lavoro riguarda gli uomini (il 55%), il rapporto è completamente ribaltato quando si analizzano le convalide: il 77,4% sono donne, costrette alle dimissioni o che hanno accettato la risoluzione consensuale. In Italia, nel 2020, sono state più di 32.800.
Le difficoltà delle madri lavoratrici
Può essere interessante anche valutare le motivazioni delle convalide depositate. La “difficoltà a conciliare il mio lavoro con la cura del bambino/bambina per ragioni legate ai servizi di cura” viene indicata da 18.718 donne e da soli 346 uomini. In particolare la difficoltà indicata può derivare da “assenza di parenti di supporto”: questa più specifica motivazione è stata data da oltre 13mila donne, e da poco più di 200 uomini. Come se la cura familiare fosse una prerogativa esclusivamente femminile.
E in effetti uno studio Inapp descrive una “generazione sandwich” tra le donne italiane: quella “fascia di età tra i 35 e 54 anni in cui la simultaneità della gestione e cura di bambini e anziani. proprio come in un panino, schiaccia la donna in un contesto di doppio lavoro con scarso supporto in termini di welfare locale e di assenza di condivisione da parte del partner, determinandone scelte e vincoli”. Anche per questo misure concrete di welfare, come il congedo di paternità recentemente escluso dalla manovra finanziaria, sono fondamentali.
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