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Quando Fortnite conquistò il mondo: l’ascesa dei gamers
Gordon Hayward è un giocatore di basket professionistico. Vive a Boston, ha 29 anni, e gioca per quella che probabilmente è una delle due squadre più famose della storia della Nba, i Boston Celtics. Ogni anno, di solo stipendio, porta a casa 29,73 milioni di dollari. Eppure, per convincere il suo coach, Brad Stevens, a lasciargli il permesso di partecipare ad un torneo di Halo (sì, il videogame), Hayward calca la mano su un fattore determinante: «I’m on a team with some friends and there’s a cash prize». Hayward è un figlio degli anni Novanta e come tanti nati in quel decennio – o poco prima – ha vissuto l’evoluzione di un mondo, quello del videogaming, che ha saputo rispondere ad uno dei desideri più intrinsechi di questa generazione. «Se mi avessero dato un euro per ogni partita vinta a Fifa nella mia vita, sarei milionario» ti ritrovi a pensare la sera prima di un esame all’università, in cui la tua preparazione vacillante ti pone il dubbio che la tua strada fosse realmente un’altra. Ecco, con un giro di dollari che ha sfondato il miliardo nel 2019, possiamo dire che gli esports – il termine “videogiochi” è ormai in soffitta accanto alla Playstation 2 – non sono più il futuro. Sono, già da un pezzo, il presente.
Con un fatturato a nove zeri, l’industria del gaming è in costante ascesa
Nobilitati come sport dal Comitato olimpico internazionale già nel 2017, sono ancora aperte le voci che li vorrebbero come disciplina olimpica, se non già dal 2020, almeno dall’edizione parigina del 2024. I numeri, sebbene non siano ancora equamente distribuiti nel mondo, fanno comunque impressione e – volenti o nolenti – i puristi dello sport dovranno rassegnarsi, più prima che poi, alla corsa per la medaglia d’oro di Dota 2.
Prima di addentrarci nella gelida palude dei dati, vorrei ricordare ai meno esperti, che l’equazione esports=sport=calcio è sostanzialmente sbagliata. Scordatevi Fifa, scordatevi Pes, ma scordatevi anche sport secondari (con l’unica eccezione dei motori): le vere discipline dello sport digitale sono altre, come i giochi Battle Royal (Fortnite, per intenderci) o i Moba (tra cui il citato Dota 2, League of Legends e Apex Legends). È attraverso questi scenari di sopravvivenza e battaglie multiplayer, che si è riscritta la storia del gaming.
Analizzando i dati di Twitch – la piattaforma su cui caricare le live session di gioco, una sorta di YouTube dello streaming – cominci a credere che le prediche dei genitori per «una vita buttata dietro a quella robaccia» erano forse troppo severe. Le dirette condivise dal guru di Fortnite Tyler Blevins, per tutti “Ninja”, nel 2018, sono state seguite per un totale di 226 milioni di ore. Sono numeri monstre, gonfiati di certo dalla popolarità del personaggio (i numeri di Ninja sono quasi il doppio del canale della Riot Games, la casa fondatrice di League of Legends, seconda in classifica), ma che tratteggiano chiaramente le caratteristiche di un fenomeno in continua ascesa.
Nel 2018 gli esports hanno elargito 133 milioni di dollari in premi ai giocatori
Le views sono importanti, ma non sono i soli dati che rendono epica una banale partita ad un videogioco. Come abbiamo detto in apertura, il fattore economico – specialmente alla voce “vincite” – è ciò che ha trasformato un fenomeno di massa in un’aspra e costante competizione. Negli Stati Uniti, i 2799 giocatori professionistici a stelle e strisce hanno vinto, tra tornei live e competizioni online, più di 25 milioni di dollari. Una fetta importante dei 133 milioni di dollari che, il mondo esports, ha elargito in soli premi nel 2018 (Dota 2 è il più ricco, con 37 milioni, Fifa, per ribadirne l’aspetto di gioco “minore”, solo 2 milioni).Di fronte a certe cifre, inizia a diventare comprensibile come mai sempre più imprenditori – tra cui ex sportivi, come Michael Jordan – abbiano deciso di partecipare al buffet.
Così, mentre le stime del giro d’affari degli esports sono in continua espansione, la lente di ingrandimento si sposta sempre più verso i problemi. Il mondo dei gamers non si discosta poi tanto dalle logiche degli influencers, con sponsorizzazioni sempre più elevate e, perché no, qualche dissing per mantenere alta la tensione tra i fan. Il seguito che hanno però, è frutto anche di lavoro e fatica, per quanto i più siano ancora restii ad associare queste parole ai videogiochi. Anzi, talvolta è proprio lo sport stesso ad aprirsi alla sua versione digitale, come il calcio, sì, ma anche come la Formula 1, che sta pian piano abbandonando i kart per scovare i piloti del futuro direttamente ai tornei di Gran Turismo. Come per tutti i boom, però, servono cautela e regole che ne favoriscano l’inserimento nella società, piuttosto che limitarsi a essere favorevoli o contrari: per tutto ciò che riguarda, prevalentemente, gli adolescenti, il “buon senso” risulta essere la miglior forma di giustizia possibile.