ambientalismo
Dobbiamo salvare le nostre montagne
È una storia di ambientalismo all’italiana quella che si snoda tra le vette bianche e severe del Parco regionale delle Alpi Apuane, a cavallo fra Versilia e Lunigiana, da un lato riconosciuto Geoparco Unesco, dall’altro sfregiato da centinaia di siti di escavazione del marmo. Complici paradossi e scorciatoie normative che hanno spinto gli ambientalisti a organizzarsi per strappare pezzi di monti all’industria marmifera. Una guerra cava per cava, metro per metro per salvare la montagna.
Le Alpi Apuane e la maledizione del marmo
Viste da lontano, le cime delle Alpi Apuane sembrano ricoperte di neve anche in estate, ma quel bianco che al tramonto si tinge di rosa è in realtà marmo, il nuovo oro bianco per i colossi stranieri dell’industria marmifera pronti a sfruttarne anche i detriti, molto redditizi se trasformati in carbonato di calcio. E così pezzi di montagna finiscono in mano all’industria chimica e alimentare. Eros Tetti, fondatore del movimento Salviamo le Apuane, ci spiega che «si tratta dell’80% del materiale estratto» e che viene impiegato «anche come sbiancante per vernici e dentifrici».
«Ѐ uno scenario preoccupante, perché spiana la strada a quella che noi definiamo la monocoltura del marmo e del carbonato di calcio, che di fatto distrugge la possibilità di altre economie, come quelle turistiche, agricole, agro-pastorali in un momento in cui l’attività estrattiva non rende in termini di posti di lavoro più come un tempo, quando a essere impiegati nell’escavazione del marmo erano più di diecimila persone».
Un parco a macchia di leopardo
L’attività di escavazione sta riproducendo dinamiche tipiche dei bacini minerari del terzo mondo, con un impoverimento delle zone adiacenti. Nonostante la feroce attività di estrazione, Massa e Carrara, sono tra i comuni più poveri della Toscana, perché il marmo viene dirottato altrove, tanto che i laboratori di scultura in loco fanno fatica a usare materiale locale. Eros Tetti ci dice che «è in atto un processo di carrarizzazione delle Alpi Apuane» cioè un tentativo di trasformare tutto il territorio in un bacino minerario a cielo aperto come accaduto a Carrara. Ci viene da pensare alla famigerata rapallizzazzione dei '50.
«L’attuale piano regionale cave prevede oltre 47 milioni di metri cubi di Apuane da estrarre nei prossimi vent’anni. Questo perché il parco delle Alpi Apuane presenta una struttura anomalo con aree al suo interno dette contigue dove è permessa l’estrazione. Qui le cave sono aperte oltre i 1200 metri nonostante sugli Appennini sia vietato, ma grazie a una deroga questa attività di rapina è resa possibile. Noi lo chiamiamo neocolonialismo».
I danni all’ambiente e all’uomo
Le cave occupano circa il 5% del territorio, ma il loro impatto sull’ambiente è altissimo. Per Eros Tetti basta pensare all’inquinamento acustico o quello derivato dal transito dei camion sulle strade di arroccamento. «La cava è dinamica, non rimane nei suoi confini, industrializza l’intero territorio». In totale si contano:
- 800 cave in 50 chilometri
- Un ferito ogni due giorni
- Un morto all’anno
«Anche le falde acquifere risentono dell’attività di escavazione, a cui si aggiunge un peggioramento della qualità dell’aria a causa del continuo passaggio dei camion, con ripercussioni sulla salute. Nel passato l’industria marmifera non impattava in questo modo sul territorio. Oggi quello che si estraeva in tre mesi, lo si estrae in un giorno».
Ma ci sono anche storie a lieto fine. «Siamo riusciti a salvare il monte Procinto, dove, da parte degli industriali, erano stati proposti 28 ettari di cave da aprire alla base della montagna. Grazie al nostro intervento, il numero è stato ridotto a 5,7 ettari, anche se per noi non basta. È necessario cominciare a parlare di riconversione economica e non più di attività estrattiva. La montagna non ricresce».