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'The French Dispatch' è il ritorno del solito Wes Anderson

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L’ultimo film del regista Wes Anderson, "The French Dispatch", potrebbe essere nostalgicamente definito “divertissement” – probabilmente da un critico cinematografico, cinico e onesto, con le gambe accavallate e la sigaretta fumante tra le dita, perfetto personaggio per un suo film. Il texano dai calzini colorati e dei completi tinte autunnali pastello, amante del vintage e del modernariato, dichiara in maniera limpida e vivida la sua fascinazione per la Francia e per i film di Jacques Tati – senza dimenticare la rivista The New Yorker. Lo fa senza troppi fronzoli, in maniera pulita e radicale, creando dei Tableaux Vivants molto più distaccati di quelli del Grand Budapest Hotel, il suo film più vicino a questo, senza un vero e proprio protagonista (Zero), ma creando quattro storie testimoni dell’amore per il giornalismo e la parola stampata.

Un cast stellare per la stagione del grande ritorno in sala

Costato 25 milioni di dollari (pareggiando Grand Budapest Hotel, appunto) e stagionato circa due anni e mezzo, tra pandemia e festival in cui presentarlo (anch’essi rimandati) è finalmente approdato nelle sale. Il film racconta della redazione di The French Dispatch of Liberty, inserto del Kansas Evening Sun, un avamposto di un giornale americano in una piccola cittadina francese del Ventesimo secolo, Ennui-sur-Blasé. Una storia corale e immaginaria, in un’epoca tra gli anni ‘20 e gli anni ‘70 narrata da un uomo che non c’è più, praticamente una formula oramai definibile Andersoniana, con gli attori più famosi e talentuosi del momento (secondo i critici borghesi americani), tanti e tutti meritevoli di menzione, che nel totale riescono a creare una sinfonia poetica.

Il cast fantasmagorico infatti, oltre a rivedere alcuni degli attori feticcio del regista – Bill Murray, Owen Wilson, Adrien Brody, Jason Schwartzman (che dice una sola battuta alla fine del film), Tilda Swinton, Frances McDormand – e a ripresentarci quelli di "Grand Budapest Hotel"Mathieu Amalric, un incantevole Léa Seydoux, la maschera Willem Dafoe che non ha battute nel film, come Edward Norton, Tony Revolori (Zero di "Grand Budapest Hotel") anch’egli muto –, vede esordire il sex symbol della Gen Z Timothée Chalamet, insieme a Elisabeth Moss, Jeffrey Wright, che interpreta forse uno dei personaggi più interessanti del film, e Christoph Waltz in un breve cameo. Insomma, chi manca?

Una lettera d’amore nei confronti del giornalismo

"The French Dispatch" è descritto dal suo autore come «Una lettera d’amore nei confronti dei giornalisti, ambientato in una cittadina francese del Ventesimo secolo». Per raccontare questo amore, vengono usate quattro microstorie che corrispondono a quattro reportage, di altrettante sezioni del giornale, narrate dai cronisti del The French Dispatch. Il primo che vede come protagonista Owen Wilson è praticamente un omaggio a Jacques Tati e la sua Sinfonia di una città, il secondo è la storia narrata dalla giornalista di arte e cultura, Berensen (Swinton) che racconta di un pittore ergastolano (Del Toro) e della sua musa (Seydoux) sua guardia carceraria, che vedremo in un nudo integrale fotografato magistralmente in un bianco e nero d’altri tempi, il tutto ritmato dal picaresco impresario dell’artista, Julien Cadazio (Brody).

Il terzo reportage, “Politica Estera” nella Parigi riottosa e studentesca “dans les rues” è un tributo a Masculin Féminin di Jean-Luc Godard con citazioni che vanno dalle musiche agli oggetti di scena passando per le insegne dei negozi. Iconica l’ultima scena in cui il protagonista (Chalamet) bacia la sua amata con una Coca-Cola in mano (Les Enfants de Marx et de Coca-Cola) Fino alla storia di “Cucina e Sapori”, rocambolesco racconto poliziesco del leggendario cuoco della gendarmerie, Nescaffier (nome che ricorda tanto Escoffier, celebre cuoco francese di inizio ‘900).

Un bel modo per tornare al cinema

L’ultima opera del regista sembra un carillon a molla ricaricabile, che si potrebbe tranquillamente comprare al mercato Les Puces de Paris Saint-Ouen, appena fuori Parigi sulla Rive droite o uno dei tanti presepi che si possono ammirare a Napoli dall’8 dicembre, che nel suo totale ci incanta con perfezione di movimenti ripetuti a memoria, ritmo da orologio svizzero e musica d’incanto, ma che se andiamo a osservare da vicino, rischia di mostrarci dei personaggi dipinti in modo approssimativo, non perfettamente delineati e non del tutto tridimensionali. Questa è una delle cifre stilistiche del regista dei meravigliosi "Royal Tenenbaums", "Rushmore" e il sottovalutatissimo film d’animazione "Isle of dogs", forse una delle vette più alte del cinema di Anderson.

Questi quattro racconti, quasi dei cortometraggi, scanditi dalle analisi benevole ed al contempo severe, dell’editore e direttore del giornale Arthur Howitzer Jr. (Bill Murray) compongono quest’ultima fatica di Wes Anderson che ancora una volta ci porta nella sua fantasia fatta di inquadrature prospetticamente perfette, simmetriche, composizioni pittoriche, slapstick, musiche di Alexandre Desplat indimenticabili, sfumature nostalgiche di epoche mai vissute, questa volta in maniera più “chic” rispetto ai più recenti film, con un'opera più di nicchia, nonostante il cast stellare, e che nonostante i discorsi e le sovrastrutture, ci riporta comunque e volentieri finalmente in sala, dopo un anno orribile per il cinema (e per i lavoratori del cinema) che ci voleva tutti nel letto col laptop sulla pancia e le borse sotto gli occhi.

I segreti dello stile di Wes Anderson

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