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Quali sono i migliori film ucraini per capire questa guerra e dove vederli
Un portale su realtà altrimenti inaccessibili o che ci vengono giocoforza restituite soltanto in forma di cronaca informativa; una finestra temporanea per entrare in connessione con spaccati autentici di umanità al di là dei dati e delle notizie flash: attraverso il Cinema proviamo a percorrere un ponte e ad approfondire il nostro sguardo, a compiere un atto politico, un gesto necessario per mezzo dell’Arte. Ecco allora che, come manifesto di solidarietà verso l’Ucraina, dal 18 marzo Wanted Cinema distribuisce nelle sale italiane Reflection, la cui uscita è stata anticipata da tre proiezioni speciali gratuite tenutesi a Roma, Milano e Venezia.
Reflection
In competizione ufficiale alla 78esima Mostra di Venezia giusto sei mesi fa, il film – un dramma composto da dolenti piani sequenza – si concentra sull’ostico ritorno alla vita da parte di un uomo di alta estrazione sociale, il chirurgo Serhiy (Roman Lutskiy), prima imprigionato dalle forze militari russe nella zona di guerra del Donbas, nell’Ucraina orientale, poi rilasciato e alle prese con la difficoltà di ricucire le cicatrici del trauma nel quadro piccolo-borghese della ritrovata ordinarietà. Il regista, produttore e sceneggiatore Valentyn Vasjanovyc, tenuto a battesimo dalla Wajda School in Polonia, punta l’obiettivo narrativo verso l’ipotesi di una rinascita e del superamento di un lutto da parte del protagonista, di sua figlia e, di riflesso, di un paese intero, ferito e frustrato da un conflitto sanguinoso.
Atlantyda (Atlantis)
Un discorso, quello sull’oppressione bellica e l’incertezza sul futuro della sua nazione, che innervava anche il lungometraggio precedente di Vasjanovyc, Atlantyda o Atlantis, vincitore della sezione Orizzonti a Venezia 2019 e selezionato dall’Ucraina per concorrere agli Oscar dell’anno successivo. Prima dello sguardo di Reflection sul passato prossimo – ora, anche per il mondo intero, divenuto brutalmente presente – il regista si era qui cimentato nell’inquietante raffigurazione di un domani possibile, quello di un 2025 (definirlo distopia sarebbe prendersi un lusso hollywoodiano…) in cui lo scontro secessionista filorusso è terminato ma ha del tutto prosciugato l’Ucraina orientale, l’acqua potabile si è esaurita e quella avvelenata ha riempito i fiumi, fino a tramutarla in una realtà inospitale.
Percorsa dal reduce Sergeij (Andriy Rymaruk) che, incapace di integrarsi al nuovo normale, si sobbarca il compito di recuperare corpi di vittime di guerra, in un movimento di pietas perpetua ma anche di fine pena mai, in una dimensione purgatoriale ritratta da Vasjanovyc con occhio empatico ed elegiaco, con la città di Mariupol come palcoscenico (dolorosissimo ancor più alla luce degli eventi attuali).
The Earth is Blue as an Orange
Dal 14 marzo è la Cineteca di Milano a distribuire – in lingua originale, sottotitolato in italiano – un altro film di produzione ucraina, che vedremo grazie alla collaborazione della fondazione con l’Istituto della Cultura Lituana, il progetto Z-Power-Young People Back to the Movies (promosso da un network di cinema italiani) e le Ambasciate della Repubblica di Lituania e della Repubblica di Ucraina in Italia. Si tratta di The earth is blue as an orange, lungometraggio documentario di Iryna Tsilyk, filmmaker, romanziera e poetessa di Kiev, debutto già presentato in un centinaio di kermesse internazionali e insignito del Premio alla miglior regia nella sezione World Cinema Documentary al Sundance Festival 2020.
In bilico percettivo fra realtà e finzione, l’autrice registra la quotidianità di una famiglia nella red zone del Donbas: una madre single e quattro figli, confinati in casa mentre fuori dalle mura domestiche imperversa il conflitto, provano a fare dell’autofiction in presa diretta: filmano la loro routine giornaliera, inventando e sperimentando, raccontano la guerra filtrandola dalla lente della loro telecamera e cercano così di trasformarla in una narrazione esorcizzante e liberatoria, servendosi del cinema come uno strumento di resilienza e fantasia, facendo della realtà di tutti i giorni un documento resistente e coriaceo. In programmazione a Milano (al MEET e al Metropolis) e poi in diversi altri schermi del Paese, l’incasso finale di The Earth is Blue as an Orange sarà poi devoluto in beneficenza.
The Tribe
Non circoscritto alle uscite in sala, concludiamo con un consiglio di visione ulteriore: contemporaneo allo scoppio della crisi nel Donbass (2014), è l'esordio di Myroslav Slaboshpytskiy. The Tribe (disponibile per il noleggio su Chili, Amazon Prime Video, CG Entertainment e TimVision), che Vasjanovyc ha prodotto e di cui ha curato la fotografia e il montaggio. Tra le folgorazioni di quell’annata e pluripremiato al Festival di Cannes, è la storia di un ragazzo non udente che si fa strada nell'unica gerarchia possibile all’interno di una comunità regolata da severe leggi del branco criminale, innamorandosi poi di una delle ragazze del suo collegio che dovrebbe far prostituire.
La parabola, antiretorica e ineluttabilmente tragica, fotografa (e condanna) un ambiente sociale isolato e desolante, lasciato a se stesso e ignorato da istituzioni omertose, un j’accuse cinematograficamente potentissimo, un’opera tutta nella lingua dei segni senza sottotitoli a rassicurare o una voce narrante ad ammorbidire l’inabissamento nella vicenda. Una scelta, questa, che al posto di allontanare o respingere chi guarda, si affida alla forza immersiva e vincente delle immagini, raggiungendo il culmine nella sequenza devastante di un aborto registrato in tempo reale, in un’inquadratura fissa; nessuno stacco, nessuna concessione. Una dichiarazione d’intenti, una maniera di fare cinema senza ritirare la mano, che chiede di restare a osservare, di sentire il tempo, un tempo necessariamente insostenibile: un cinema che lotta per non desistere, per non venire abbandonato.
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