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coronavirus

Ho mangiato nei ristoranti cinesi della mia città (e non ho preso il coronavirus)

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Vivo in una città con una nutrita popolazione asiatica dove lo tsunami di paura italiana sul coronavirus ha desertificato le attività cinesi, stringendo la popolazione orientale in una sorta di quarantena invisibile. Quindi mi sono detto: la redazione ha già pubblicato un bel video sulle fake news del coronavirus, io potrei fare un passo in più. Ma quale? Beh: mangiare.

Nel deserto dei ristoranti cinesi

C'erano almeno due aspetti positivi nel lanciarmi in questa inchiesta culinaria: il cibo (amo la cucina del Sichuan: zuppe di pesce bianco e condimenti iperpiccanti che Tijuana scansati proprio) e le file, praticamente inesistenti. Si, perché nella mia città ci sono almeno un paio di ristoranti in cui è impossibile prenotare, tavole calde dove la cucina è davvero cinese (non il fast food surgelato che troviamo in giro per l'Italia) e, per sedermi, in genere devo aspettare un'oretta, al freddo, sul marciapiede.

La zuppa di pesce del Sichuan
La zuppa di pesce del Sichuan

Stavolta, al mio arrivo, manca giusto il tappeto rosso: nel primo ristorante, la clientela è poca (tutta cinese, a parte quattro americani). L'atmosfera caotica a cui sono abituato se ne è volata via nel freddo dell'inverno italiano, sulle ali delle dichiarazioni un po' azzardate di alcuni politici. Solita zuppa gigante di pesce, solite verdure piccanti, grappa di bambù e via. Niente confusione, niente fila e qualche sorriso. La cena perfetta. Nel secondo ristorante vedo un cartello fuori: "Non siamo stati in Cina da tre mesi". Immagino quanto possa suonare emotivamente contraddittorio per un emigrato sentirsi sollevato nel gridare al mondo che non torna a casa da mesi. Come italiani dovremmo avere, nella nostra cultura, una qualche forma di empatia migratoria, ma gli ultimi anni mi hanno dimostrato che, se davvero esiste, si nasconde molto bene. Stessa storia di prima: entro veloce, mangio ravioli e ramen, poi dorayaki, grappa di bambù e sorrisi.

Le melanzane al cinese sono impegnative
Le melanzane al cinese sono impegnative

Per il terzo ho bisogno di un intervallo: il granchio piccante che cucinano è memorabile e voglio gustarmelo. Qui trovo una coppia italiana, l'unica da quando ho iniziato. Mi sparo involtini e granchio, poi bambù, e il mio stomaco inizia a essere provato. Ma io sono una persona dedita al lavoro e quindi chiudo il giro con un takeaway classico: spaghetti di riso con curry e pollo in agrodolce in un ultimo posto. Stavolta niente bambù.

E insomma il coronavirus?

Tutto quello che ho rimediato da questo tour de force è stata un po' di indigestione. Etnicizzare il coronavirus, come abbiamo fatto in quest'ultima settimana, è un segno dei tempi e delle nuove tendenze culturali. Naturalmente la prudenza è una buona cosa ma l'allarmismo non aiuta nessuno, quindi qualche dato che può esservi utile (e in fondo all'articolo tutti i link): la malattia diffusasi a Wuhan è un virus di tipo B (meno letale, per fare un esempio, dell'influenza, che miete ogni anno 300,000 vittime nel silenzio generale); lo Stato italiano è tra quelli che attua più controlli; il governo di Pechino sta trattando la malattia come fosse di tipo A per sicurezza e, soprattutto: essere cinesi non implica avere il coronavirus. In particolare se gestisci un ristorante in Italia da trent'anni.

Nel vuoto cosmico di un ristorante cinese
Nel vuoto cosmico di un ristorante cinese

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