coronavirus
Il plasma iperimmune è la cura miracolosa per il coronavirus?
Il plasma per curare i malati, in questo caso di coronavirus, non è una novità: risale addirittura al primo Premio Nobel del 1901, Von Behring, che lo usò contro la difterite. In Italia se ne parlava già a inizio aprile con le dichiarazioni del dottor Massimo Franchini, ematologo e primario del centro trasfusioni dell’ospedale di Mantova: «Il concetto di plasma convalescente è in pista da 30 anni. Inoltre, nelle altre due epidemie da coronavirus, ovvero la Sars del 2002 e la Mers del 2012 è stato adoperato con successo; l’Organizzazione mondiale della sanità ne ammette l’utilizzo nel caso di malattie gravi per cui non ci sia un trattamento farmacologico efficace». L'uso del plasma iperimmune non è, infatti, nuovo ed era già stato sperimentato a Shanghai (qui l'articolo citato dall'Istituto Superiore della Sanità), ma difficilmente potrà diventare la cura universale per la malattia. Per quale motivo?
Come funziona la cura col plasma
Il plasma è la parte più ‘liquida’ del nostro sangue, priva di cellule e composta da acqua, proteine, nutrienti, ormoni. Contiene anche una quota di anticorpi che si sono formati dopo la battaglia vinta contro il virus: «Si chiamano anticorpi neutralizzanti, si legano all’agente patogeno e lo marcano».
Il plasma viene usato quando il malato entra in una fase grave del Sars-Cov-2: «Il momento giusto per immetterlo è ad uno stadio preciso della malattia: quando si hanno già delle manifestazioni gravi, come la scarsa ossigenazione, si è sottoposti a ventilazione assistita con casco C-pap, ma non si è ancora intubati» spiega il dottor Franchini. La scelta del tempismo è fondamentale: «perché abbiamo imparato che con questa malattia ci si può aggravare anche nel giro di poche ore. E che questo processo a un certo punto diventa irreversibile».
I limiti della plasmoterapia
Ma gli stessi medici che usano questo sistema ne rilevano i limiti. Il presidente dell'Avis, Giamberto Briola, invita alla cautela: «Si è dimostrato che in molti casi il plasma è efficace per gli anticorpi presenti nei soggetti guariti, ma al momento è importante mantenere la calma e informarsi sempre attraverso fonti attendibili e non creare false aspettative». Infatti ci sono almeno cinque punti su cui la cura col plasma, per quanto efficace, dimostra punti deboli:
- Servono molti donatori
- Non tutti i donatori sviluppano gli anticorpi giusti
- Servono test su ogni siero per evitare rischi
- L'effetto è limitato a 2/3 settimane e va reiterato
- Il paziente migliore è quello già in fase avanzata della malattia
Ma la prospettiva che apre la cura col plasma è un'altra: grazie a essa potremo, forse, individuare il gene di un paziente che codifica gli anticorpi e riprodurre il siero in laboratorio, eliminando, così, almeno tre punti deboli della cura odierna che, ripetiamo, è emergenziale.
La sperimentazione è conclusa
I segnali sono, comunque, molto incoraggianti. Franchini spiega: «Si sono potute osservare molte cose. Prima di tutto il tipo di paziente su cui l’immunoterapia passiva funziona: colui che ha già una sindrome da distress respiratorio di grado medio-severo e ha avuto l’insorgenza della malattia da meno di 10 giorni. La precocità dell’intervento sembra decisiva nella terapia col plasma». E il miglioramento avviene con una velocità sorprendente: «Da poche ore a pochi giorni».
A Mantova «abbiamo centinaia di donatori e ormai una biologa della nostra equipe è dedicata ogni giorno a selezionare e smistare tutti i volontari che desiderano donare il proprio sangue», ma l'ampliamento della platea a livello nazionale richiederà tempo ora che la sperimentazione è conclusa. Ma Franchini sottolinea il basso costo di questa procedura e la sua reperibilità: «deriva dal sangue umano, debitamente trattato; il sangue di persone che sono guarite e che hanno sviluppato gli anticorpi nei confronti del coronavirus». Ora dobbiamo solo attendere i risultati dell’analisi dei dati e la loro pubblicazione.
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