scienza
Cos'è la 'open science' e come può rendere più democratica la scienza
A chi non ha almeno un piede nel mondo accademico probabilmente sarà sfuggito lo scandalo scoppiato quando la celebre rivista scientifica Nature ha annunciato che avrebbe pubblicato articoli open science, a patto che i ricercatori pagassero una commissione di €9500 per ogni articolo pubblicato in questo formato. Tradotto: noi pubblichiamo il vostro articolo senza paywall (ovvero senza che chi abbia bisogno di leggerlo debba pagare), ma per farlo dovete pagare di tasca vostra, o con i soldi del laboratorio, una tassa talmente alta da impedirvelo (a meno che non siate in una delle università nella top 20 al mondo). Per quanto la discussione che ne è seguita ha favorito il fiorire di meme esilaranti nell’academic twitter – quel sottobosco di Twitter popolato da accademici che oscillano tra l’adorazione per l’analisi dati e il piangere su un sistema che vive di contratti a tempo e burnout –, questa ha anche evidenziato la refrattarietà del settore ad accettare una traslazione completa verso l’open science.
Che cos'è la open science
Per Open Science [“Scienza Aperta”, NdR], intendiamo quell’insieme di pratiche nell’ambito della ricerca scientifica volte a rendere la produzione di conoscenza trasparente e accessibile, che nasca dalla collaborazione tra laboratori di ricerca, università e ricercatori. Lo scopo dell’open science è di rendere trasparente come viene concepita una ricerca, come è sviluppata, come vengono svolte le analisi dei dati e, infine, di rendere fruibile gratuitamente il prodotto della ricerca stessa, quindi l’articolo scientifico dove vengono condivise con il pubblico le scoperte. È soprattutto quest’ultimo passaggio a venire discusso, perché nella maggior parte dei casi questi articoli non possono essere consultati senza essere pagati. Ponete il caso in cui un dottore voglia leggere un articolo dove vengono riportate nuove scoperte su un certo tumore o su una certa malattia mentale: a meno che non lavori in un ospedale universitario che sia convenzionato con la rivista o la casa editrice dove è pubblicato l’articolo, per poterlo leggere dovrà pagare.
La pratica dell’open science si prefigge però anche di aumentare l’integrità e la trasparenza del metodo scientifico. Per farlo, si spinge sempre di più verso la condivisione dei dati raccolti, per esempio i risultati dei questionari somministrati durante un esperimento di psicologia e le caratteristiche dei soggetti che hanno partecipato all’esperimento, ovviamente mantenendo l’anonimato. Al contempo, è richiesta anche la condivisione dei codici usati per analizzare questi stessi dati. Questi due passaggi sono essenziali sia per rendere la ricerca più facilmente replicabile, ovvero fare in modo che qualche altri ricercatori da un laboratorio diverso possa rifare quell’esperimento per vedere se riesce ad arrivare alle stesse conclusioni partendo dalle stesse premesse. Passaggio che contribuisce a verificare che non ci siano stati degli errori o, secondo punto importante dell’open science, che non ci sia stata alcuna forma di contraffazione da parte del ricercatori, per esempio falsificando i risultati.
L’open science, quindi, aiuterebbe a democratizzare la ricerca scientifica rendendola accessibile a tutte le persone, indipendentemente dal reddito, dal ceto sociale, o dal livello di studio, rendendola direttamente fruibile anche a giornalisti scientifici indipendenti che possano condividerne i risultati col pubblico. Questa democratizzazione della ricerca passerebbe anche attraverso una maggiore trasparenza dell’utilizzo delle risorse allocate ad un certo laboratorio o università, rendendo chiara ad esempio la qualità delle proprie analisi, dei processi di ricerca dietro agli esperimenti, ed accertandosi che non avvengano falsificazioni lungo la strada. Serve forse ricordare che parte della ricerca scientifica – sia in Italia che in molti paesi all’estero – deriva dafondi pubblici; accertarsi che i fondi stanziati favoriscano davvero la crescita scientifica e rientrino nello sviluppo collettivo, dovrebbe essere visto come un servizio pubblico.
I lati negativi della open science
Se sulla carta sembrerebbe tutto estremamente lineare, esistono resistenze e lati negativi: anzitutto, fino a ora la maggior parte dei giornali più prestigiosi si rifiutano di pubblicare in formato open, fondamentalmente perché smetterebbero di ricavare gli introiti degli abbonamenti alla rivista e dell’acquisto degli articoli. Al contempo, queste sono le stesse riviste che hanno un impact factor – un “fattore qualità”, basato sull’impatto nel mondo della ricerca – più alto.
Anche se alcuni ricercatori hanno evidenziato come non ci sia correlazione tra questo fattore e il numero di volte che una ricerca viene condivisa da altri ricercatori, e quindi valutata come “buona” o “utile” per il proprio campo, pubblicare su riviste con alto impact factor rende un curriculum più prestigioso, e quindi più papabile quando c’è da scegliere a chi dare un assegno di ricerca o una cattedra in università. Le case editrici scientifiche e le riviste sono perfettamente consapevoli di questo meccanismo, ed è su questo aspetto che fanno leva per non rendere i propri accessi gratuiti o per rendere la pubblicazione open estremamente costosa, e quindi elitaria. Sì, il capitalismo affligge anche la scienza.
Qual è la situazione in Italia?
Come al solito, in Italia siamo indietro rispetto ad altri paesi. L’open science è uno dei più importanti argomenti nel panorama accademico internazionale, tanto da essere uno dei punti fondamentali di Horizon Europe, il più grosso programma di finanziamento scientifico europeo. Ciò comporta che per fare domanda per fondi ad Horizon sarà importante includere l’open science nella richiesta. Su iniziativa della commissione Europea, è stato costruito anche l’European Open Science Cloud, infrastruttura online che mette a disposizione servizi per l’implementazione e la promozione della ricerca aperta. Con questo in mente, lascia un certo sconcerto che al punto 4 del Piano Nazionale di Riprese a Resilienza (il PNRR), dedicato all’istruzione e alla ricerca, non venga fatta alcuna menzione all’open science. Non viene accennata una proposta per sviluppare delle infrastrutture interne al paese per supportare l’open science (ad esempio siti dove allocare i dati), né si menzionano fondi adibiti a coprire i costi richiesti per pubblicare open. Non viene nemmeno menzionata l’importanza di sviluppare questo ambito.
Di fatto, le iniziative in questa direzione vengono lasciate nelle mani di enti di ricerca che si prendono la responsabilità di promuovere l’open science in modo indipendente, come il dormiente gruppo di lavoro Italian Open Science Support Group, o lo sforzo messo in atto dall’Università Statale di Milano per favorire la partecipazione all’open science e il suo sviluppo anche internamente al paese. Questa mancanza di interesse va ad innestarsi ad una generale mancanza di educazione alla ricerca e alla sua importanza, che parte dalle scuole superiori, dove si potrebbe iniziare ad avvicinarsi all’ambiente, e una mancanza di insegnamento al concetto di open science a livello universitario già prima di un eventuale accesso a un dottorato.
Di fatto, la diseducazione su questa tematica e la mancanza di supporto istituzionale, rischiano di farci restare indietro per l’ennesima volta nel dibattito scientifico. Anche se, tenendo conto della mancanza di fondi che relega molte università nostrane ad essere tra quelle limitate nella condivisione e nell’accesso ai risultati della ricerca, come paese dovremmo essere tra i capofila di questa rivoluzione.
Segui VD su Instagram.