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L'obsolescenza programmata è un pilastro del capitalismo. E un problema per l'ambiente

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Cambiamo il nostro smartphone dopo un anno perché ripararlo è diventato meno conveniente che comprarne uno nuovo. La ragione sta in quella che viene definita “obsolescenza programmata”: una strategia adottata dai produttori che punta a rendere obsoleto un prodotto nel giro di poco tempo, così da spingere i consumatori all’acquisto continuo. «Il capitalismo ha tre pilastri: la pubblicità, la rateizzazione e l’obsolescenza programmata», spiega a VD Gian Piero Celata, direttore del dipartimento Tecnologie Energetiche di Enea. Ma tutelare noi e l’ambiente è possibile.

Obsolescenza programmata ed economia capitalista

Nel 2021, l’associazione “Altroconsumo” ha dato il via a una class action contro Apple, chiedendo un risarcimento di 60 milioni di euro «per tutti i consumatori italiani ingannati dalle pratiche di obsolescenza programmata riconosciute anche dalle autorità italiane». L’obsolescenza programmata, però, è un sistema vecchio di almeno cento anni. «È un concetto che risale al 1924, quando alcune delle aziende che producevano lampadine a incandescenza si misero d’accordo perché le lampadine prodotte non durassero più di 1.000 ore», spiega Celata. «Eppure negli Stati Uniti, c’è una lampadina che sta accesa addirittura da oltre cento anni».

Oggi, l’obsolescenza programmata viene messa in atto da aziende grandi e piccole. «Certo, un oggetto destinato a durare di più nel tempo, avrà anche un costo più alto. Ma se non trovo i pezzi di ricambio per riparare quello che ho già in mio possesso, allora l’obsolescenza può essere considerata una truffa, perché obblighi il consumatore a cambiare il prodotto». Nel frattempo, secondo i dati di Global E-Waste Monitor, la produzione di rifiuti tecnologici nel 2019 ha superato i 53 milioni di tonnellate. L'Europa è al primo posto nel mondo in termini di generazione di rifiuti elettronici pro capite: ne produciamo circa 16,2 chili a testa. Ma in Europa si registra anche il più alto tasso di raccolta e riciclaggio dei rifiuti elettronici, pari al 5%: siamo i più virtuosi al mondo, ma la sostenibilità è ancora lontana.

Tecnologia e uso sostenibile

Per Celata, è la tecnologia che, spesso, «crea i bisogni». E per far bene al pianeta e al nostro portafogli «Non bisogna vergognarsi di avere uno smartphone che ha più di due anni». «Oltre all’obsolescenza programmata, c’è anche l’obsolescenza psicologica: ci sono persone che dopo un anno cambiano lo smartphone, pur non avendone reale necessità ma solo perché il mercato ha proposto un modello nuovo», spiega.

D’altronde, per allungare la vita dei nostri device possiamo adottare alcune strategie. «Per far vivere più a lungo i nostri smartphone dovremmo fare solo gli aggiornamenti più importanti», dice. «Per quanto riguarda il pc, c’è chi non ha aggiornato per anni il sistema operativo del computer e questo gli ha permesso di poterlo usare per anni senza problemi. Insomma, non bisogna farsi tentare dalle novità».

Quando, però, cambiare il computer o lo smartphone è inevitabile, si può puntare sulla sostenibilità scegliendo un dispositivo ricondizionato. «L’uso di oggetti ricondizionati non è ancora molto diffuso, eppure sarebbe un grande aiuto per la riduzione dei rifiuti tecnologici. E può aiutare anche chi ha disponibilità economiche inferiori».

Gli oggetti vecchi o malfunzionanti, invece, possono vivere una seconda vita. «Tutti noi a casa abbiamo smartphone che non usiamo più. Questi, ad esempio, possono usati come piccole televisioni o telecamere, consentendoci di risparmiare la batteria dei telefoni che usiamo tutti i giorni». Insomma, la sostenibilità va a braccetto anche con la creatività. Ma soprattutto, secondo Celata è necessario un cambio di passo. «È importante prenderci cura degli oggetti tecnologici che abbiamo. E a fine vita, seguire le regole di un’economia che sia sempre più circolare».

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