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Myanmar, un massacro raccontato sui social
Il 42esimo giorno dopo le elezioni in Myanmar, in una pagina Facebook mascherata da gruppo di appassionati di libri, viene pubblicato l’ennesimo post. «Ci siamo svegliati con il report di altre due morti a Twante e un’altra in Mandalay. Sono caduti sotto gli spari dell’esercito terrorista (così lo definiscono in ogni testo, ndr). Possano riposare in pace, noi continueremo la loro lotta». Sui social il racconto disperato delle proteste in Myanmar appare e scompare da più di un mese, attraverso link temporanei e pagine social prontamente chiuse. Un incubo lucido totalmente digitale che i manifestanti burmesi condividono con noi nella speranza di essere soccorsi. Un grido d’aiuto internazionale tanto forte da spingere l'esercito del Myanmar a spegnere internet nel paese. Ma che, per ora, ha suscitato più 'interazioni' che vere azioni nel resto del mondo.
La situazione in Myanmar
In Myanmar il processo democratico si è rivelato tutt’altro che semplice. La dicotomia esercito e democrazia sembrava essere stata superata quando Aung San Suu Kyi, vincitrice del Nobel per la Pace, era salita al potere nel 2015. Un attivismo, però, macchiato dal silenzio sul genocidio dei Rohingya, la minoranza musulmana del Paese. Lo scorso primo febbraio, Aung San Suu Kyi è stata arrestata, con il presidente Win Myint, dai militari guidati dal generale Min Aung Hlaing, dopo che il partito del premio Nobel aveva conquistato a novembre la maggioranza dei seggi. E il Paese è precipitato sull’orlo di una guerra civile. «Chiedo alle forze di sicurezza di rispettare i diritti umani e le libertà fondamentali, compreso il diritto all’assemblea pacifica e alla libertà di espressione», ha dichiarato Ola Almgren, coordinatore residente delle Nazioni Unite e coordinatore umanitario in Myanmar. Ma le strade della capitale Naypyidaw sono state travolte dall’ondata di migliaia di persone scese a protestare per la democrazia, nonostante la massiccia opera di repressione dei militari. E mentre gli Stati Uniti di Joe Biden hanno condannato il golpe, la Cina ha mostrato un atteggiamento neutrale. Un comportamento che nasconde la volontà di salvaguardare il corridoio economico verso l’Oceano Indiano.
La resistenza del Myanmar sui social media
«Ogni volta che ci sparate noi ci risolleviamo» recita uno dei post di un profilo che, teoricamente, parlerebbe di ricette burmesi su Instagram. Ormai sono centinaia le vittime della repressione militare. Morti raccontate proprio sui social network, piattaforme digitali la cui importanza per la popolazione del Myanmar, disarmata di fronte allo strapotere della giunta militare, è diventata chiara fin da subito. Due settimane fa tutto il mondo aveva visto e ricondiviso la foto della suora cattolica Ann Nu Thawng, della congregazione religiosa di San Francesco Saverio. La donna, in ginocchio, supplicava i soldati di non sparare verso i giovani manifestanti disarmati. La foto era stata postata dal cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, che aveva twittato: «La polizia sta arrestando, picchiando e persino sparando alle persone. In lacrime, suor Ann Nu Thawng implora e ferma la polizia affinché smetta di arrestare i manifestanti». La centralità dei social media nel tentativo del popolo burmese di sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale era iniziata già a Febbraio. La campagna Bang Your Pot, che riprendeva la tradizione burmese di battere le pentole per scacciare gli spiriti maligni, era stata lanciata con tanto di hashtag per essere condivisa in tutto il mondo. Una battaglia per la visibilità sui social media che ha visto anche Facebook scendere in campo disattivando gli account dell’esercito Tatmadaw e lasciare, praticamente, campo libero ai manifestanti. Almeno su internet.
Un intervento internazionale ancora lontano
Nel frattempo i membri della Lega Nazionale per la Democrazia, vincitori delle elezioni, si sono nascosti e stanno sfruttando sistemi VPN e simili per far circolare informazioni. Lex-speaker della Camera, Mahn Win Khaing Than e i suoi colleghi stanno invitando alla resistenza, rassicurando la popolazione che una sorta di “governo ombra”, il Comitato Rappresentativo della Camera Bassa, sia ancora in piedi. La battaglia nelle strade, però, è impari: l’esercito detiene potere e armi, la popolazione solo i propri smartphone, oramai privi di un accesso a internet. E l'intervento dell’Occidente (ultima speranza dei burmesi, viste le posizioni di Cina e India), sembra ancora lontano. Dopo aver visto le dozzine di video, stories, post, racconti condivisi sui social media, la sensazione è che i burmesi siano ancora, sostanzialmente, soli di fronte al nemico. Quel racconto fatto di immagini e di sofferenza, di lotta e di coraggio, sembra perdersi in un etere sempre più saturo di informazioni. Come già successo con altre proteste, ad esempio quelle di Hong Kong, o altre repressioni, come quella degli Uiguri in Cina, la risonanza mediatica sembra restare una semplice eco. Nell’epoca dei social la mobilitazione internazionale dura lo spazio di un clic. Poi si passa ad altro, nella tempesta di contenuti che ci travolge a ogni scroll.
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