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Aung San Suu Kyi, a processo l'eroina che è «vissuta abbastanza da diventare il cattivo»
Il Myanmar è precipitato di nuovo nella morsa militare dopo quello che si teme essere un colpo di stato che ha imprigionato il governo e la sua leader, la sempre più isolata Aung San Suu Kyi. Come tutti gli eroi che sopravvivono alla propria impresa, infatti, anche Aung San Suu Kyi ha sofferto le ombre che, lentamente, si sono allungate sul suo operato. Ombre che hanno confermato la frase di Christopher Nolan ne Il Cavaliere Oscuro: «O muori da eroe o vivi abbastanza da diventare il cattivo».
Aung San Suu Kyi, l’eroina
Figlia del generale Aung San, amatissimo dal popolo birmano, Suu era stata imprigionata nel 1990 a seguito della sua vittoria nelle prime elezioni tenutesi in Birmania dall’inizio della dittatura militare. I venti anni di prigionia della leader democratica hanno segnato un’epoca di mobilitazioni internazionali che ha visto, in prima linea, anche il marito di Suu Kyi, Michael Aris, studioso di cultura tibetana morto per un cancro prima della liberazione della moglie. Solo nel 2010, dopo l'intervento di tanti capi di stato e importanti artisti internazionali, Aung San Suu Kyi fu liberata e, nel 2015, divenne il capo de facto del Myanmar. Due anni dopo ebbe inizio quello che l’ONU chiama “genocidio dei Rohingya”.
Il genocidio dei Rohingya
Era stata l’altro premio Nobel per la Pace Malala Yousafzai ad alzare la voce contro Aung San Suu Kyi nel 2017, mentre l’esercito birmano attuava una delle peggiori repressioni etniche della storia del sud-est asiatico. Yousafzai, da sempre impegnata nel supporto alle giovani donne musulmane nel mondo, aveva scritto: «Negli ultimi anni ho ripetutamente condannato il tragico e vergognoso trattamento dei Rohingya. Sto ancora aspettando che la mia compagna di Nobel per la pace Aung San Suu Kyi faccia lo stesso. Il mondo sta aspettando e i Rohingya stanno aspettando». Poi aggiunse, in un secondo tweet: «Fermate le violenze. Oggi abbiamo visto immagini di bambini uccisi dalle forze di sicurezza della Birmania. Questi bambini non hanno fatto del male a nessuno, eppure le loro case vengono bruciate e distrutte. Se la loro casa non è in Birmania, in cui i Rohingya hanno vissuto per generazioni, dov'è? I Rohingya dovrebbero ottenere la cittadinanza birmana, il paese in cui sono nati». Considerati da sempre una «minaccia alla razza e alla religione» del Myanmar, i Rohingya sono una minoranza etnica musulmana che, sin dall’indipendenza della Birmania nel 1948, ha costantemente subìto diverse forme di discriminazione (mancato conferimento della cittadinanza, negato accesso all’istruzione secondaria, limiti alla libertà di movimento). Vittime di omicidi di massa, stupro, tortura e distruzione sistematica delle case e dei luoghi culturali nello stato del Rakhine, i Rohingya sono considerati «la minoranza più perseguitata al mondo». Dall’agosto del 2017 la situazione è persino peggiorata. Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (Unhchr) è stato messo in atto un vero e proprio genocidio da parte delle forze armate burmesi che ha costretto circa 700mila Rohingya a fuggire in Bangladesh per rifugiarsi nei campi di Cox’s Bar. Il tutto mentre la leader Aung San Suu Kyi smentiva il genocidio e parlava di operazioni contro il gruppo ARSA (Arakan Rohingya Salvation Army).
L’isolamento di Aung San Suu Kyi e il colpo di stato
Sostenuta ormai solo dalla Cina, che in questi anni è stata accusata della repressione di un’altra minoranza musulmana, quella degli Uighuri, e dalla Russia, Aung San Suu Kyi si è vista privata del sostegno di quelle forze che, per tutta la sua prigionia, l’avevano supportata: ONU, paesi occidentali, Amnesty International, grandi artisti internazionali. Il Gambia, nel 2019, ha suggellato questa lenta caduta con la denuncia della leader birmana alla Corte internazionale di giustizia per genocidio. Oggi, infine, un nuovo colpo di mano militare ha approfittato di questo isolamento per destituirla e arrestare lei, il presidente Win Myint e i vertici della Lega nazionale per la democrazia che aveva vinto le ultime elezioni. L'annuncio è stato dato dalla televisione militare Myawaddy, che ha spiegato come l'esercito abbia preso il controllo del Paese e che tutti i poteri siano stati trasferiti al capo delle forze armate Min Aung Hlaing, alla guida del Paese per un anno. La presidenza ad interim sarà invece ricoperta dal generale in congedo e vice presidente Myint Swe. La ragione ufficiale è la “riparazione” dei “brogli elettorali” che, secondo i militari, avrebbero distorto il risultato delle elezioni di novembre. Interrotte le trasmissioni tv e chiuse le banche, nel paese è stato dichiarato lo stato di emergenza per un anno e le strade della capitale Nay Pyi Taw, dove è stata imprigionata Aung San Suu Kyi e da ieri sono interrotti i collegamenti telefonici, sono piene di militari.
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