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«Non chiamateci eroi». Il medico volontario contro il coronavirus

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Il coronavirus, la quarantena, la paura. E poi ci sono loro, i millennials, quelli che fino a ieri chiamavamo bamboccioni e che adesso non amano farsi chiamare eroi, ma che mettono a rischio la propria salute per occuparsi dei malati. Sono i giovani medici italiani, quasi tutti ancora specializzandi, che si sono fatti assegnare volontariamente nei reparti Covid-19 degli ospedali del Paese. Tra di loro c’è anche Alberto Spadotto, del Sant’Orsola di Bologna che ci ha raccontato la sua storia.

«Non chiamateci eroi»: i medici del coronavirus

Alberto viene da Udine e ha 28 anni. Ѐ specializzando in malattie dell’apparato cardiovascolare e ha voluto dare un contributo dove ce n’era più bisogno, anche se rifiuta la retorica del medico-eroe al fronte che inzuppa i giornali di queste settimane. «Non ho fatto niente di eroico. Per me era abbastanza scontato andare a dare una mano dove serve, nel momento in cui si ristruttura il bisogno sanitario, perché ci sono delle necessità legate a questa pandemia di coronavirus. È giusto che si vada a coprire dove ci sono delle mancanze, come succede in qualsiasi azienda».

Il dott. Alberto Spadotto lavora al Sant
Il dott. Alberto Spadotto lavora al Sant'Orsola di Bologna

Alberto ci dice che alla fine il suo lavoro è assistere, a prescindere dal “pallino” per la cardiologia: «mi sono sentito parte di un sistema che aveva delle problematiche attive e gravi, l’ho affrontato come un sacrificio facente parte integrante del mio lavoro». I volontari provenienti dal reparto di cardiologia costituiscono circa il 25% del totale degli specializzandi in malattie cardiovascolari. «All’inizio eravamo in pochi, poi mano a mano che si è strutturata la necessità siamo aumentati, fino a diventare una quota considerevole se si tiene conto che parte delle nostre attività quotidiane sono rimaste invariate diversamente da altri reparti che sono stati riconvertiti totalmente per l’emergenza». Insomma, non chiamateli eroi ma medici coraggiosi.

Nei reparti Covid-19

Inizialmente a essere reclutati tra i volontari erano solo gli specializzandi degli ultimi due anni per restare in linea con i bandi regionali, poi la possibilità è stata estesa anche ai ragazzi e alle ragazze del secondo anno. Alberto è stato assegnato ai reparti di semi-intensiva, che ha all’attivo otto letti. Ci dice di stare vivendo questa esperienza con grande senso civico. «La realtà bolognese è diversa rispetto a quella lombarda: qua abbiamo avuto il tempo di organizzarci. Chi lavora a Bergamo e Brescia fa turni molto più massacranti».

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L'ospedale Sant'Orsola di Bologna

«Nel mio reparto, ad esempio, ci sono pazienti che prima erano intubati e adesso scendono di intensità di cura o, purtroppo, pazienti che si cerca di salvare con metodiche non invasive. È un campione particolare: si vedono giovani senza problemi o anziani con diverse comorbilità». Alberto ci racconta che grandi fette dell’ospedale sono stati riconvertiti in reparti Covid. «Abbiamo un turnover molto veloce. Ogni giorno arrivano un sacco di pazienti». Ritmi dettati un momento critico che da emergenza si sta trasformando in normalità.

I rischi per la salute degli operatori sanitari

I pericoli che i medici e gli infermieri corrono sono moltissimi e la possibilità di contagio da coronavirus non è un fattore trascurabile. «Nel limite del possibile, sono protetto, purtroppo, però, il rischio non è mai zero. I miei genitori sono  preoccupati, ma hanno accettato la mia decisione e non mi hanno ostacolato». I dispositivi di sicurezza sono infatti “contingentati”.

Come gli ospedali italiani si stanno preparando all'emergenza coronavirus

«Lavoro nel reparto dove ci sono i malati di coronavirus da dieci giorni. Non sono mai stato senza protezione, anche se non posso utilizzarne più del necessario. Nel pianificare la mia attività giornaliera devo tener conto che ho delle risorse limitate». La situazione di Alberto è comune a tanti altri medici e infermieri sparsi per l’Italia. Lo scenario era prevedibile: siamo tutti figli di un Paese che credeva che le epidemie esistessero ormai solo nei romanzi del Manzoni, impagliate per sempre come nei musei.

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