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Favolacce è il Parasite di Roma Sud

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Una manciata di bambini, la provincia ai confini di Roma Sud, un’estate non meglio precisata dei primi Duemila: Favolacce, Orso d’argento per la sceneggiatura alla Berlinale 2020 e rimasto senza premi ai David di Donatello, è, incredibilmente, tutto qui. «Il film è ispirato a una storia vera, la storia vera è ispirata a una storia falsa, la storia falsa non è molto ispirata», dice la voce di Max Tortora fuori campo: il diario di una bambina recuperato da una campana della carta, vecchio trucco molto efficace, è il pretesto di raccontare e immaginare la vita attorno a quelle pagine scritte di fretta, con la penna verde, sconnesse, non consequenziali, interrotte.

La storia di Favolacce

L’ultima volta che si era letto di una storia “interamente vera perché inventata da capo a piedi”, si stava leggendo la premessa a La schiuma dei giorni, bel romanzo, molto strampalato, del musicista e patafisico Boris Vian, uno che non voleva avere molto a che fare con la realtà - o almeno non con questa realtà. Allo stesso modo, i D’Innocenzo - Fabio e Damiano, classe ’88 - non hanno alcun interesse a ripetere una realtà che non riconoscono, la realtà del telegiornale della sera e delle storie riassunte e rese tutte uguali e classificabili, facili da digerire e pronte per essere giudicate. Le storie della provincia di Favolacce sono orribili, insensate, storie delle quali si riesce a discernere causa ed effetto solo al prezzo di sentirsi dei sociologi d’accatto da primo pomeriggio televisivo.

La dolorosa aderenza alla realtà

I D’Innocenzo riescono, straordinariamente, a scrivere e a descrivere la provincia italiana come non avveniva in questo secolo dai tempi di Reality di Garrone (i due fratelli hanno partecipato alla sceneggiatura di Dogman, c’è da dire), a parlare di una comunità come tante e di persone come tante senza scadere in pietismi lacrimosi. Ricorda, nel suo approccio crudo, il Parasite di Bong Joon-ho. Aiuta, va detto, la beauté de l’âge, la bellezza dell’asino e della giovinezza: se si toglie la voce di Tortora e la faccia di Elio Germano (che pure è credibilissimo), il cast è formato, quando non proprio da bambini (bravissimi), da esordienti o quasi esordienti che sembrano non avere alcuna remora a farsi spiare dagli occhi dei bambini stesi sotto i tavoli, a farsi riprendere con le cispe agli occhi e i pantaloncini fissi nel culo, senza alcuna premura. Ileana D’Ambra, qui al primo film, è impossibile da non guardare, come certi topi in decomposizione ai bordi delle strade di campagna: la si guarda, si tenta di distogliere lo sguardo, ci si arrende.

Un'autorialità che non si autocompiace

Ci si arrende a che cosa? Il rischio, sempre aleggiante, è di cadere nei cliché della disperata vitalità, in un lirismo che è più nella partecipazione dello spettatore che nelle intenzioni dei registi: il fatto è che, qui, ogni aggettivo è finalmente superfluo, si guarda la vita scorrere esattamente come se quella fosse la nostra stessa, a prescindere che abitiamo in provincia o parliamo quel romano così sbiascicato da essere alle volte incomprensibile. I fratelli D’Innocenzo riscoprono una dimensione dell’autorialità che non è solo estro, abilità o competenza con gli strumenti, è piuttosto la capacità di trattare la materia senza farne per forza un tema, senza ricollegarsi a un genere, a un modello, a una morale. Guardare all’individuo e vedere la persona, non la metafora. Sì, ogni tanto la macchina da presa si allontana dall'azione, la riprende per un attimo da lontano e ne mostra la tragicità, ma, ecco, il film comunque rimane una storia, una storia come tante altre. Finalmente.

Quando Elio Germano lesse Odio gli indifferenti di Antonio Gramsci

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