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Dal pietismo alla retorica dell'eroe: abbiamo un problema con gli atleti paralimpici

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Diversi? No. Eroi? Nemmeno. Se le Paralimpiadi di Londra del 2012 sembrano, almeno secondo gli addetti ai lavori, aver spazzato via l’alone di pietismo sopra i Giochi, adesso l’errore in cui pubblico e organizzatori rischiano di cadere è l’opposto. La retorica dell’eroe solo contro un destino crudele e avverso rischia, ancora una volta, di relegare gli atleti disabili al ruolo di ‘altri’. Come sottolineato da Andrea Cionna, maratoneta non vedente ed ex primatista mondiale, «l’accento deve cadere sulla prestazione sportiva, che deve avere lo stesso valore per tutti, perché non siamo fenomeni». Non a caso, alle Paralimpiadi di Tokyo del prossimo anno, il percorso della maratona sarà, per la prima volta nella storia, identico a quello previsto per i normodotati e non risparmierà nessuna criticità agli atleti con difficoltà motorie.

Un passo verso la vera integrazione, con buona pace dei sostenitori del politically correct e di chi in questi anni ha pensato ai Giochi per disabili più come a un contentino che a una competizione vera e propria a cui si partecipa per gareggiare e non per essere compatiti o messi su un piedistallo e che ha alle spalle tanto sudore, lavoro e anche qualche lacrima. La barriera più grande, dunque, resta quella culturale che continua a confondere l’occhio non solo del pubblico ma anche di chi racconta l’evento sportivo.

Una performance sportiva viene vista a bocca aperta, quasi si trattasse di un fenomeno paranormale

L’attenzione, infatti, cade ancora sulla mancanza di un arto, sulla sordità o sulla cecità, mentre la prestazione resta un aspetto secondario, un’impresa irrealizzabile resa possibile solo grazie a una forza di volontà sovraumana. La campagna We are the Superhumans, realizzata da Channel 4 in occasione delle Paralimpiadi di Rio, è l’esempio più evidente del passaggio dall’era del pietismo a quella degli eroi. Nell’annuncio televisivo, sportivi e artisti ballano, cantano e gareggiano proponendosi al pubblico come ‘superumani’, qualifica che solo in apparenza valorizza i professionisti con deficit motorio, ma che in realtà li relega ai margini del mondo dello sport.

Quella che dovrebbe essere considerata a tutti gli effetti una performance sportiva come le altre si trasforma in uno show che fa restare a bocca aperta chi la guarda, quasi si trattasse di un fenomeno paranormale. La fatica, la gioia e il dolore sono, però, gli stessi provati dagli atleti normodotati. Tanto che crescono sempre di più gli sport integrati, vale a dire quelle tipologie di attività competitive rivolte a tutti gli sportivi. È il caso della vela, come ha raccontato a Videodrome Antonio Squizzato, atleta paralimpico e neo-vincitore dell’European Para Inclusion Sailing Championships, una disciplina che si è dimostrata in grado di annullare le differenza fra disabili e non. «Credo negli esempi, non nei supereroi. Ho visto velisti senza braccia tirare le corde con i denti. In acqua non importa se ti manca un arto, sei un lottatore e basta. Si fa sport vero: questo è il messaggio che deve passare al pubblico».

La fatica, la gioia e il dolore degli atleti paralimpici sono gli stessi dei normodotati
La fatica, la gioia e il dolore degli atleti paralimpici sono gli stessi dei normodotati

La competizione paralimpica come emancipazione

Altro che «esaltazione delle disgrazie», etichetta usata da Paolo Villaggio per le Paralimpiadi di Londra del 2012. La competizione diventa piuttosto strumento di emancipazione, oltre che momento di sensibilizzazione, anche se non mancano discriminazioni all’interno degli stessi Giochi. È il caso degli atleti non udenti, esclusi dalle Paralimpiadi per «ragioni organizzative». Eppure, solo pochi giorni fa, le ragazze della nazionale sorde volley, guidate dall’allenatrice Alessandra Campedelli, si sono aggiudicate l’oro europeo.

Un trionfo silenzioso che però ha ufficialmente consacrato le azzurre come atlete, al pari delle colleghe normodotate, ma che, fa notare Campedelli, non le ha ancora innalzate al ruolo di professioniste. Colpa dell’assenza di strutture adeguate, presenti invece per chi ha altri tipi di disabilità. E anche se a fare più rumore sono i campioni alla Bebe Vio e all’Alex Zanardi, dipinti come la retorica dei superumani comanda, c’è una schiera di atleti disabili che chiede che l’occhio del pubblico non si concentri sulle protesi ma sullo spettacolo offerto dalle loro performance sportive. Al di là di sterili venerazioni e stucchevoli pietismi.

Il maestro Berdun, campione di basket paralimpico, e i suoi piccoli allievi

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