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Diego Armando Maradona, l'eroe imperfetto degli emarginati

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Gianni Brera ricordava che Eraldo Monzeglio, allenatore di calcio e insegnante di tennis dei figli di Benito Mussolini, lasciò Napoli nella «convinzione che mai nulla di buono sarebbe stato possibile in quell’ambiente allegro e sciagurato, superficiale e triste, in cui la fame ereditaria si alleava all’ignoranza e alla jattante presunzione». A sovvertire questa profezia arrivò Diego Armando Maradona da Buenos Aires. Nato il 30 ottobre 1960, Diego è morto meno di un anno fa, in seguito a un edema polmonare acuto: al suo funerale un milione di argentini sono scesi in strada per omaggiarlo e a Napoli è stata organizzata una veglia all’esterno dello stadio che ora porta il suo nome. In questi giorni al grande calciatore argentino viene dedicata una serie tv in uscita su Amazon Prime Video, Maradona Sueño Bendito, e in suo onore si disputerà un torneo in Arabia Saudita. Palinsesti televisivi, bacheche e feed si riempiono di celebrazioni, come al solito trasversali quando sono post mortem. L’immagine di Maradona viene venduta in ogni angolo del globo, con o senza licenza.

Diego Maradona e gli ultimi

Da vivo Maradona aveva difeso i senza mestiere e i disgraziati che a Napoli si “arrangiavano” vendendo capelli di Diego, accendini, magliette, foto e parrucche: «Non mi importa se fanno soldi con il mio nome, loro ne hanno bisogno. Non voglio però che chi è già ricco si arricchisca ancora di più sfruttando il mio nome», disse in un’intervista a Gianni Minà. E il primo pensiero, arrivato a Napoli, fu proprio per quella fascia di popolazione dimenticata dalle istituzioni e snobbata dal dibattito pubblico, alla quale si mostrò fin da subito vicino: «Voglio diventare l'idolo dei ragazzi poveri di Napoli». Era il luglio del 1984, e i trionfi della squadra azzurra erano ancora da costruire. Maradona è nato povero, in un quartiere periferico di Buenos Aires, Villa Fiorito, ed è morto come un povero, con pochi soldi in banca, curato in un caseggiato anonimo di Tigre, nel suo paese. Sette persone sono ancora sotto inchiesta per la sua morte, indagate per omicidio volontario.

In questa sua comunione con la parte più emarginata della popolazione sta il motivo del culto che Maradona ha creato a Napoli (e non solo). Scriveva Gianni Mura nel 1985: «Facce come la sua propongono finte Lacoste e finte Vuitton alla Sanità, con vero entusiasmo. […] Adesso non è più importante sapere se Maradona è uomo-squadra: è uomo-città. Non è un giocatore del Napoli, ma di Napoli. C’è molto sentimento nel calcio che Maradona produce. Raramente, credo, il nostro calcio ha mostrato un’adesione così immediata fra l’anima di una città e quella di un uomo». Ancora Gianni Mura torna su questa adesione e su una caratteristica maradoniana in un pezzo su Repubblica uscito undici anni fa, per il 50esimo compleanno di Diego. «Regalava consapevolmente allegria, non buoni esempi. In Brasile dicono “Se parlate di Pelè, la gente si toglie il cappello. Se parlate di Garrincha, piange. Era l’alegria do povo, l’allegria del popolo”. Quello che è stato Maradona».

In alcuni versi all’interno de “La vita è un pallone rotondo”, dello scrittore ed editore serbo Vladimir Dimitrijevic, si percepisce – tra le pieghe di una retorica che pare inevitabile – il contesto sociale in cui Diego Maradona amava immergersi per esaltarsi: «Quello fu uno scudetto incredibile: il Sud che si prendeva la rivincita sul prospero Nord, i colori ocra e blu cielo del Vesuvio, la folla in delirio, i canti, l’esuberanza, i travestimenti, i cavalli variopinti, una festa come quelle che solo le antiche cronache riportano, in cui le divinità si mischiano agli uomini. Un carro coperto di fiori e, al centro, un piccolo Bacco dagli occhi febbrili con in testa una corona da vero sovrano. Un kitsch sublime! L’Argentina, che è una testa di ponte dell’Italia nell’emisfero australe, restituiva a Napoli il suo re, Diego Maradona, e la sua festa».

I diritti negati e Diego Armando Maradona

La festa che un’intera città sognava – senza saperla immaginare – da anni, reclamando una sorta di diritto alla felicità che a Napoli sembrava precluso. Proprio di diritti sembra parlare Maradona, a Napoli, negli anni ‘80. Lo evidenzia il volume fotografico “Come eravamo” del grande fotografo Gianni Fiorito. Il libro racconta le trasformazioni sociali che – tra gli anni ‘70 e ‘80 – la città fu chiamata ad affrontare. Nelle foto si alternano disoccupati, commercianti che protestano contro il racket, terremotati che chiedono celerità nella ricostruzione, scioperi, poliziotti in borghese durante retate anti camorra, morti ammazzati, tossicodipendenti, periferie che sorgono nel nulla. Cosa c’entra Maradona? Eppure, eccolo. Nella foto di Fiorito è ritratto in allenamento allo stadio San Paolo: si impegna a calciare verso la porta tre palloni, uno dopo l’altro. Sembra un’immagine di serenità in mezzo a tanto trambusto, ma anche Maradona sta lottando. Si è già fatto carico di una rivendicazione che coinvolge l’intera città (unica, infatti, tra le grandi metropoli italiane, a non avere la cittadinanza divisa nel tifo fra due squadre locali): la lotta per il diritto alla felicità.

Maradona ha pagato tutti i suoi crolli (squalifiche esemplari, una famiglia disgregata, il suo precario stato di salute, il disprezzo dell’élite e delle istituzioni calcistiche) scegliendo di restare se stesso: scomodo, indisciplinato, eccessivo, fallibile e coraggioso. Napoli l’ha capito, amato e reso eroe nel senso mitologico del termine: un “essere semidivino al quale si attribuiscono imprese prodigiose e meriti eccezionali” (Treccani). Diego, come più fraternamente lo chiamano a Napoli, ha rimesso al centro della narrazione una città che sembrava condannata a una posizione subalterna e ha dato allegria a una popolazione rassegnata. Era un eroe fragile, con debolezze simili a quelle dei suoi tifosi, che infatti con lui si identificavano. “El mas humano de los dioses”, come lo definì Eduardo Galeano.

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